venerdì 9 ottobre 2015

STORIA DI UNA BANCOMAFIA


Giuseppe Fava
"Mi rendo conto che c’è un'enorme confusione che si fa sul problema della mafia. Questo signore ha avuto a che fare con quelli che dalle nostre parti – come Sciascia giustamente dice – sono scassapagghiari, cioè delinquenti da tre soldi che esistono su tutta la faccia della Terra. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo... Cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale; questa è roba da piccola criminalità che credo che faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice nella gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale e definitivo l’Italia"

Giuseppe Fava, intervista rilasciata a Enzo Biagi 
in una puntata della trasmissione "Film story" dal titolo "Mafia e camorra", 
registrata il 28 dicembre 1983 e andata in onda il giorno seguente su Rete4, 
in coproduzione con TSI - Televisione Svizzera di lingua Italiana (qui il video). 
Pochi giorni dopo, il 5 gennaio 1984, Fava venne assassinato.





Tutte le storie iniziano con "c'era una volta" e quella che segue non fa eccezione... 

C'era dunque una volta un uomo, tale Paolo Vitale.
Ma non era un uomo qualunque.
Era un uomo di mafia. 
Contiguo a quell'organizzazione di sanguisughe criminali chiamata "Cosa Nostra" fin dal 1981, venne condannato per favoreggiamento nel maxiprocesso istruito (anche) dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
All'evidente scopo di rimpolpare un curriculum delinquenziale di tutto rispetto, si adoperò tramite la propria attività imprenditoriale per reimpiegare capitali di origine illecita provenienti da vari esponenti mafiosi, tra i quali il genero Salvatore Biondo (la figlia di Vitale lo aveva sposato nel 1989, quando era già stato tratto in arresto).
Infine, gli venne sequestrato e definitivamente confiscato un immobile della sua società (la Delmina s.n.c.), divenuto così... cosa nostra!
C'era una volta una banca, la Banca Nazionale del Lavoro.
Ma non era una banca qualunque.
Era una banca molto, molto generosa.
Il 12 giugno 1999, infatti, prima che l'immobile di quel gran pezzo d'un Vitale fosse oggetto di sequestro di prevenzione, concesse al figliolo Francesco - amministratore della ditta paterna - un mutuo fondiario della bellezza di 75 milioni di lire, garantito da apposita ipoteca iscritta  proprio sull'immobile della Delmina s.n.c.. 
Ma la B.N.L. era anche una banca molto, molto coraggiosa.
Ci vuole infatti una notevole dose di coraggio per pretendere - come essa fece - il riconoscimento della propria buona fede e la conseguente ammissione al pagamento del credito ipotecario vantato! Difatti la stravagante istanza venne rigettata per ben due volte dalla Sezione per le Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo (avverso una prima ordinanza dei magistrati, la B.N.L. aveva proposto opposizione davanti al medesimo giudice, il quale - con una seconda ordinanza datata 17 aprile 2014 - aveva confermato il verdetto precedente). 
Tuttavia la B.N.L. era anche una banca molto, molto ostinata.
Arrivò persino a presentare ricorso in Cassazione, purtroppo (per lei) inutilmente.
Già, perchè sei mesi fa la Corte Suprema (sezione I penale, sentenza n. 34106 del 9 aprile 2015 - Presidente Maria Cristina Siotto, Relatore Raffaello Magi) non potè far altro che convalidare in pieno i provvedimenti emessi dai colleghi siciliani.
La B.N.L. aveva infatti sciaguratamente accordato un mutuo sostanzioso senza aver prima svolto nessuna vera istruttoria, essendosi semplicemente limitata ad acquisire la visura camerale e il certificato d’iscrizione della Delmina s.n.c. al Registro delle Imprese.
Eppure (o forse proprio per questo) la contabilità della società era completamente priva di qualsivoglia attendibilità! D'altra parte non poteva essere altrimenti, visto che le risorse da questa impiegate derivavano da delitti di stampo mafioso (come già ricordato, la reale funzione dell'azienda consisteva nel riciclare il denaro sporco dei boss).
Attraverso l'affidamento di quel mutuo che aveva consentito a quel gentiluomo di Paolo Vitale di acquistare un immobile poi sequestrato e confiscato, la B.N.L. "ha reso possibile - di fatto - una operazione di tendenziale reimmissione nel circuito economico […] di capitali di provenienza illecita (con ciò assicurando il frutto di tale attività o comunque il reimpiego di detti capitali [...])".
Ora, poichè l'istituto di credito era perfettamente a conoscenza della biografia criminale di Vitale (del resto non poteva non esserlo, essendo questi stato condannato addirittura nel celeberrimo primo maxiprocesso a Cosa Nostra) e si era reso protagonista di un imperdonabile "difetto di verifica, posto che l'erogazione del mutuo è avvenuta in assenza di un reale controllo della affidabilità soggettiva del richiedente e della linearità della gestione societaria", l'unica constatazione da trarre è la mancanza di buona fede da parte della banca nell'ambito di un affidamento decisamente colpevole.

Morale della storia: sappiate che gli istituti dove siete soliti depositare i vostri soldi non sono (quasi mai) banche. Sono bancomafie!


P.S. Siete interessati ad approfondire il perverso rapporto che lega gli istituti di credito alle associazioni mafiose? Allora vi consiglio di leggere "Banche e mafia, il grande affare. Come e perchè gli istituti di credito aiutano le grandi organizzazioni criminali ad essere la prima azienda del Paese" di Davide Carlucci e Giuseppe Caruso (Ponte alle Grazie, 2013). 
Buona lettura!

Aggiornamento del 13 ottobre 2015
Dall'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l'8 novembre 1985 dall'Ufficio Istruzioni Processi Penali del Tribunale di Palermo (guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli), con cui vennero rinviate a giudizio 475 persone (sarebbe stato il celebre maxiprocesso a Cosa Nostra di cui si è fatto cenno sopra), si evince che Paolo Vitale - nato a Palermo il 26 settembre 1937 - era stato detenuto dal 16 dicembre 1981 al 12 febbraio 1982. 
Egli, insieme a Salvatore Biondo, era socio in un’impresa edile di costruzioni, l’"Immobiliare Sicania", insieme a Francesco Bruno. Secondo i giudici del pool antimafia, quest'ultimo non era un semplice killer occasionale, ma un membro stabile di Cosa Nostra, ragion per cui lo rinviano a giudizio per associazione per delinquere, associazione mafiosa, omicidio, tentato omicidio, detenzione e porto d'armi. 
Ed è proprio nei confronti di Bruno che Paolo Vitale e Salvatore Biondo sono mandati a processo per favoreggiamento personale. Con le loro dichiarazioni, infatti, avevano cercato di fornirgli - per il giorno dell'omicidio da costui commesso a Carini il 1° ottobre 1981 - un alibi "miseramente crollato sotto una schiacciante mole di prove testimoniali", tentando di accreditare la tesi - falsa - secondo la quale Bruno sarebbe rimasto a lavorare in cantiere con loro fino al primo pomeriggio di quel giorno. Erano invece stati smentiti dai propri dipendenti, permettendo così alle indagini di accertare che Bruno si era sì presentato in cantiere la mattina di quel 1° ottobre, ma poi si era allontanato, senza essere più visto nè quel giorno, né in quelli seguenti. 
Ecco perché "il tentativo di fornire un alibi al Bruno da parte dei suoi soci Vitale e Biondo era miseramente naufragato".
Così come è miseramente naufragato il tentativo da parte di una bancomafia di essere ammessa al pagamento di un credito ipotecario vantato in seguito a un mutuo scelleratamente erogato all'azienda di chi aveva "coperto" un assassino mafioso suo socio d'affari.

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