martedì 7 aprile 2015

SE IL CONCORSO E' ESTERNO ALLA MAFIA
(e al carcere)

La Corte Costituzionale ha appena depositato (il 26 marzo) le motivazioni di una sentenza alquanto controversa, soprattutto per l'effetto che avrà su molti procedimenti penali di mafia.
Ma partiamo dall'inizio.
Nel 2013 un'indagine dei magistrati di Lecce sfocia nell'arresto in carcere di un quarantenne tarantino incensurato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa (per intenderci, lo stesso reato per cui Marcello Dell'Utri si trova in carcere per scontare una condanna definitiva a 7 anni di reclusione).
Nell'autunno del 2011 l'uomo - pur non inserito organicamente nel clan Taurino - avrebbe consapevolmente messo a disposizione dell'organizzazione criminale le sue conoscenze tecniche e i suoi apparati idonei a scovare gli strumenti usati dagli inquirenti per captare le conversazioni tra i mafiosi (microspie, GPS, telecamere posizionate nel centro storico di Taranto), contribuendo così a mettere il clan al riparo dall'attenzione degli "sbirri".
Come scontato, l'avvocato presenta al giudice un'istanza per chiedere gli arresti domiciliari.
Sebbene il Gip di Lecce, Giovanni Gallo, sia convinto della permanenza delle esigenze cautelari (visti i legami intrattenuti dall'indagato con i vertici di un clan mafioso ancora in attività), ritiene che - dopo circa sei mesi di reclusione nelle patrie galere - la misura cautelare adeguata per prevenire il pericolo di reiterazione del reato sia ora quella della detenzione domiciliare.
Infatti - è il ragionamento del giudice - una volta confinato a casa sua l'indagato non potrà più mettere al servizio della mafia le sue abilità tecniche!
Sorge però un problema: per il concorso esterno in associazione mafiosa la legge rende obbligatorio il carcere quale misura di custodia cautelare, anche se nel caso concreto le esigenze cautelari (il pericolo di fuga, l'inquinamento delle prove, la reiterazione del reato) potrebbero essere soddisfatte con misure alternative meno afflittive, come gli arresti domiciliari.
A Gallo non resta che sollevare presso la Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale della norma (l'art. 275, c. 3, secondo periodo del codice di procedura penale, così come modificato nel 2009), sospendendo il procedimento in corso, ma mantenendo comunque l'indagato dietro le sbarre.
Nell'apposita ordinanza del 23 dicembre 2013, il Gip pugliese giudica la norma incostituzionale, in quanto violerebbe ben tre articoli della Costituzione: il 3 (visto che il giudice non ha il potere di adeguare la misura cautelare al caso concreto, due situazioni da considerare in maniera diversa - la partecipazione ad un'associazione mafiosa e il concorso esterno, differenti per portata criminale e pericolosità - si ritrovano ad essere parificate dalla stessa risposta cautelare: l'obbligo del carcere. Viene così violato il principio di uguaglianza), il 13 (che si ispira ai principi di proporzionalità, adeguatezza e del minimo sacrificio necessario per la privazione della libertà personale, da circoscrivere allo stretto indispensabile. Insomma, la custodia in carcere dev'essere l'extrema ratio, mentre il codice di procedura ne prevede l'applicazione automatica) e il 27 (il codice attribuisce alla coercizione personale cautelare la funzione propria invece della pena, in violazione del principio della presunzione di non colpevolezza).
Ed eccoci, dunque, alla discutibile sentenza della Corte Costituzionale di cui si accennava all'inizio - la n. 48/2015 - emessa il 25 febbraio scorso (Presidente Alessandro Criscuolo; Giudice relatore e redattore Giuseppe Frigo).
La Corte ha ritenuto fondate le ragioni del Gip di Lecce (e quindi - indirettamente - del legale della persona incarcerata), nonostante l'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, avesse chiesto di dichiarare la questione manifestamente infondata.
Dopo aver rammentato la definizione di "concorrente esterno alla mafia" (chi - senza essere stabilmente inserito all'interno dell'organizzazione criminale - fornisce un contributo di causa efficiente, consapevole e volontario alla conservazione o al rafforzamento del clan), la Consulta ne evidenzia la sostanziale differenza rispetto al mafioso partecipante, figura che - inclusa nel sodalizio - prende parte in prima persona e in maniera stabile e permanente alla realizzazione del programma delinquenziale. 
Ragion per cui - secondo la Corte - nei confronti del concorrente esterno non è mai ravvisabile quel vincolo di adesione permanente al gruppo mafioso che possa legittimare il ricorso esclusivo alla misura carceraria come unico mezzo adatto a recidere i rapporti dell'indiziato con l'ambiente criminale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità.
Be' - direte voi - ma l'apporto del concorrente esterno dà un apporto notevole al raggiungimento degli obiettivi mafiosi, in certi casi addirittura più rilevante di quello dell'affiliato!
Certo - replica la Consulta - ma "tali considerazioni attengono [...] alla gravità dell'illecito commesso dal concorrente esterno, che dovrà essere congruamente apprezzata in sede di determinazione della pena, all'esito della formulazione di un giudizio definitivo di colpevolezza".
Il solo fatto che l'indagato agisca in un contesto mafioso non basta per far presumere in maniera assoluta che solo la custodia carceraria possa soddisfare le esigenze cautelari.
L'elemento determinante per rendere costituzionalmente legittima tale presunzione assoluta è proprio quello di cui è sprovvisto il concorrente esterno, ovvero l'inserimento stabile all'interno di un'organizzazione mafiosa (alla quale è "solamente" contiguo).
Quindi, conclude la Consulta, di fronte all'applicazione di misure cautelari a un presunto concorrente esterno in associazione mafiosa, il giudice è obbligato a optare per il carcere; tuttavia, se vi sono elementi specifici relativi al caso concreto per i quali le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure alternative meno afflittive, allora bisogna scegliere queste ultime. Pertanto, se già con gli arresti domiciliari le esigenze cautelari possono trovare piena soddisfazione, è irragionevole mandare la gente in galera prima della condanna definitiva.
Per esempio, se il supporto del concorrente esterno risulta episodico (mentre quello del membro del clan è necessariamente stabile e duraturo) o si esplicita in un solo contributo, d'ora in poi il giudice potrebbe benissimo ritenere sufficienti gli arresti domiciliari oppure il divieto o l'obbligo di dimora.
Nel ragionamento compiuto dalla Corte, ciò dimostra che il reato di concorso esterno può manifestarsi in concreto con diverse modalità, che non possono essere omologate dall'esclusione aprioristica di qualsiasi possibile alternativa alla custodia carceraria come strumento per contenere la pericolosità sociale del soggetto.
Infine la Consulta commenta: "mentre, nel caso dell'associato, la presunzione di pericolosità sociale cede [...] solo di fronte alla dimostrazione della rescissione definitiva del vincolo di appartenenza al sodalizio; nel caso del concorrente esterno - che non ha alcun vincolo da rescindere, stante la sua estraneità all'organizzazione - il parametro per superare la presunzione è diverso e meno severo, rimanendo legato alla prognosi di non reiterabilità del contributo alla consorteria".
Ecco allora spiegato il (vero) significato di "concorrente esterno in associazione mafiosa": a furia di ripetere che si tratta di una persona esterna alla mafia, siamo arrivati a facilitarne la collocazione esterna alle patrie galere!


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