martedì 24 marzo 2015

LA VERITA' E IL CORAGGIO
ILLUMINANO LA GIUSTIZIA

La "XX giornata della memoria e dell'impegno" organizzata da "Libera",
Bologna, 21 marzo 2015 

"Ogni cittadino
ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un'attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della società"

Costituzione della Repubblica italiana, art. 4 c. 2


Tre giorni fa ho partecipato a Bologna alla "XX giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie", promossa da "Libera" e contraddistinta dallo slogan "la verità illumina la giustizia"
Per l'occasione riporto un bellissimo scritto di don Luigi Ciotti, fondatore e presidente della nota associazione antimafia che proprio domani compirà vent'anni.

"<<Il coraggio, uno non se lo può dare>> dice il povero don Abbondio al Cardinale Federico Borromeo in un celebre passo dei Promessi Sposi
A questo prete letterario, emblema della codardia e della sottomissione ai prepotenti, mi piace rispondere con le parole di un sacerdote vero: <<Non c'è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte, di denunciare>>. 
Questa frase di don Peppe Diana ci restituisce tutto intero il senso di una vita spesa a costruire giustizia e speranza per la sua gente, fino a quel 19 marzo del 1994, quando la camorra s'illuse di mettere a tacere per sempre la sua voce profetica. 
Una voce che invece continua oggi a risuonare e a scuotere le coscienze di molti.
Aveva ragione, don Peppe: il coraggio è qualcosa che dobbiamo ritrovare perché ognuno lo possiede già dentro di sé, magari senza sospettarlo.
Coraggio non vuol dire disprezzare il pericolo, calpestare il buon senso, mettersi in mostra con imprese mirabolanti. 
Il coraggio vero è qualcosa di molto più semplice: ci richiama all'origine latina della parola, cor-habeo, che significa <<ho cuore>>. 
E il cuore tutti ce l’abbiamo, no? 
Solo che spesso non siamo in grado di ascoltarlo, di sintonizzarci sul suo battito più autentico, perché distratti dal <<rumore di fondo>> in cui sono cullate le nostre vite: il rumore dell’abitudine, del conformismo, della delega, della <<chiacchiera>> superficiale, dell’individualismo e dell’indifferenza.
Che fare per ritrovarlo, questo coraggio?
<<L’amore è intrepido>> spiega il Cardinale Federico allo spaurito don Abbondio. 
E <<per amore del mio popolo non tacerò>> risponde ancora, idealmente, don Diana, di nuovo indicandoci la strada: avere cuore significa innanzitutto avere a cuore qualcosa, qualcuno, e mettersi pienamente in gioco per il suo bene.
Non ci scopriremo coraggiosi per noi stessi, ma sempre per gli altri, e la prima forma di coraggio è proprio uscire dagli stretti confini dell'io per aprirci al noi, alla relazione, a quella corresponsabilità che sola è capace di costruire cambiamento. 
Il coraggio non è insomma una rincorsa all'autostima, né una gara di gesti eclatanti, ma una questione di <<amore>>, e di coerenza, nelle piccole e grandi scelte quotidiane.
Coraggiosi sono i ragazzi che coltivano le terre sottratte alle mafie, perché sono terre che amano e a cui vogliono restituire dignità. 
Coraggiosi sono gli amministratori che non si piegano alle minacce della criminalità organizzata, gli imprenditori che denunciano il racket, i testimoni di giustizia: nell'incontrarli, ho scoperto persone che tengono la schiena dritta innanzitutto per amore verso le proprie famiglie e le proprie comunità. 
Ma coraggioso è anche chiunque svolga con serietà e impegno il proprio lavoro - qualunque lavoro, in condizioni oggi sempre più difficili di incertezza e precarietà - perché vuole dare il suo contributo alla crescita economica, morale e culturale di un Paese che ama e nella cui capacità di riscossa non rinuncia a sperare.
Coraggioso è chi guarda in faccia le proprie fragilità e le affronta (<<il coraggio di avere paura>>): chi lotta per sconfiggere una dipendenza, per uscire da una situazione di violenza, per riparare a un errore commesso.
Coraggioso è chi, in ogni situazione della vita, alle scorciatoie della furbizia, dell'inganno e della prepotenza preferisce la fatica della responsabilità.
In questo senso, il coraggio è qualcosa di profondamente legato alla nostra capacità di essere pienamente e consapevolmente liberi"

Don Luigi Ciotti, articolo sulla parola "CORAGGIO" intitolato "È la nostra capacità di essere liberi" e pubblicato su "il Fatto Quotidiano" del 25 febbraio 2013.


Il "Movimento Agende Rosse" alla manifestazione di "Libera",
Bologna, 21 marzo 2015   

"Tutti i cittadini
hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica
e di osservarne la Costituzione e le leggi"

Costituzione della Repubblica italiana, art. 54 c. 1

Alcuni giovani siciliani hanno scelto di partecipare
alla giornata della memoria e dell'impegno
perchè non vogliono partecipare al funerale dell'Italia,
Bologna, 21 marzo 2015
  

domenica 8 marzo 2015

DONNE ALLE PRESE CON UN PAESE CHE NON RICONOSCE L'AMORE


Questa è una storia tutta al femminile.
La storia di cinque donne.
Sono loro, oggi, le protagoniste del mio racconto.
Sono loro le stelle che brillano nell'oscurità 
di un Paese che non sa riconoscere il sole.
Nemmeno nella giornata a loro dedicata.


Ines e Barbara (nomi di fantasia) si vogliono bene, si amano.  
Ines è spagnola, Barbara italiana.
Vivono insieme, a Barcellona.
Nel 2009 si sposano, perchè la legge - in Spagna - non pone ostacoli all'amore.
E il loro è un amore immenso, incontenibile.
Troppo grande per non essere donato.
Troppo intenso per non essere condiviso.
Si sottopongono così alla fecondazione eterologa, scambiandosi il dono più bello, il dono più sacro: l'una regala i propri ovuli all'altra, alla compagna che restituirà dopo nove mesi il frutto dell'amore autentico.
Nel 2011 quel frutto germoglia.
E' un bimbo bello, dolce, come solo i bambini sanno essere. 
E' il figlio di due donne innamorate della vita.
Perchè la legge - in Spagna - non pone ostacoli all'amore: quel bambino è - a tutti gli effetti - figlio  tanto di Ines, quanto di Barbara
Il certificato di nascita del registro dello stato civile del Comune di Barcellona parla da sè: il piccolo è nato da due donne, indicate come "madre A" e "madre B".
Madri di un nuovo cittadino spagnolo.
Perchè la legge - in Spagna - non pone ostacoli all'amore.
Ma in un altro Paese - così vicino e così lontano - le cose vanno assai diversamente.
Un pubblico ufficiale - l'Ufficiale dello stato (in)civile di Torino - respinge la richiesta di trascrizione dell'atto di nascita del figlio di Ines e Barbara.
Motivazione: sarebbe un atto contrario all'ordine pubblico (?!?).
Siamo nel 2012, ma sembra di essere nel Medioevo (che pure ha saputo partorire gente come Dante, Petrarca, Boccaccio, Francesco d'Assisi, Tommaso d'Aquino, Giotto e Cimabue).
Ad Ines e Barbara non resta che rivolgersi alla magistratura, alla quale chiedono che (anche) l'Italia riconosca il certificato di nascita del loro bambino (attraverso la trascrizione nei Pubblici Registri dell'Anagrafe torinese) e il suo diritto di essere cittadino italiano.
Ma qui non siamo in Spagna, dove la legge non pone ostacoli all'amore.
Il 21 ottobre 2013 il Tribunale di Torino respinge la domanda delle due donne.
In quello stesso giorno il destino vuole che Ines e Barbara - dopo aver deciso, come molte coppie, di divorziare - sottoscrivano un accordo per sancire l'affidamento congiunto del figlioletto.
E' la logica conseguenza della potestà congiunta: in questo modo le due donne potranno continuare a condividere le responsabilità di genitori (ad esempio, per prendere e attuare le decisioni più importanti riguardanti l'educazione, la salute e gli spostamenti all'estero del bambino sarà necessario il consenso di entrambe le mamme).
Ecco, Ines e Barbara - pur separate - compiono una scelta importante, purtroppo non molto comune nelle coppie che si sfaldano: accantonare le incomprensioni e le divergenze per far prevalere l'amore verso il frutto del loro amore. 
Bellissimo! 
Ma anche se l'Italia non è la Spagna (dove la legge non pone ostacoli all'amore), alla fine è proprio l'amore più vero a portare le più grandi soddisfazioni.
Infatti Ines e Barbara non si lasciano scoraggiare dalla bocciatura del Tribunale.
Non mollano così facilmente!
Ricorrono in appello.
E qui entrano in scena tre donne, le altre protagoniste di questa storia: Renata, Federica e Daniela, le tre giudici del collegio della Corte d’Appello di Torino - Sezione Famiglia che dovrà esprimersi sul ricorso di Ines e Barbara.
Si giunge al 29 ottobre del 2014.
Per l'Italia incivile e insensibile, quel giorno inizia nel migliore dei modi.
Su mandato del Prefetto di Udine (Provvidenza Delfina Raimondo), il Viceprefetto aggiunto (Giovanni Maria Leo) giunge negli uffici comunali dello stato civile del capoluogo di provincia friulano.
Il suo compito?
Annullare d'ufficio la trascrizione di un atto di matrimonio celebrato in Sudafrica nel 2010 tra una cittadina udinese e una cittadina sudafricana.
Si tratta del primo provvedimento eseguito d'imperio dopo la circolare del Ministero dell'Interno del 7 ottobre 2014 inviata a tutti i prefetti della Repubblica (delle banane). Con tale atto, l'Angelino Alfano di turno aveva pensato bene di esortare i rappresentanti provinciali del Governo ad adoperarsi affinchè le trascrizioni dei matrimoni gay celebrati all'estero fossero cancellate dai registri dello stato (sempre meno) civile.
Ma quello stesso giorno, quel 29 ottobre 2014, rappresenta anche il riscatto dell'Italia civile e sensibile.
Il merito è di quelle tre giudici della Corte d’Appello di Torino - Renata, Federica e Daniela - che proprio quel 29 ottobre dell'anno 2014 pronunciano il decreto con cui accolgono la richiesta di Ines e Barbara, ordinando all'Ufficiale dello stato (in)civile di Torino di trascrivere l'atto di nascita del loro bambino.
Secondo la Corte, poichè il diritto spagnolo riconosce la maternità (anche) a Barbara, il bimbo assume la cittadinanza italiana ius sanguinis, ovvero per diritto di sangue.
Pertanto la richiesta di trascrizione del certificato di nascita del minore va accolta. 
E tutto il discorso sull'atto contrario all'ordine pubblico, inteso come insieme dei principi fondamentali (anche) costituzionali, tra i quali spiccherebbe il presunto ostacolo alla formazione di una "famiglia" posto dall'omosessualità dei genitori?
La risposta arriva dalle esperienze passate:

  • nell'aprile del 2010 la Corte Costituzionale ha statuito che l'unione omosessuale - cioè una stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso - rientra tra le formazioni sociali di cui parla l'articolo 2 della Costituzione. Di conseguenza, tale unione non solo ha il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ma anche quello di ottenerne il riconoscimento giuridico, con i relativi diritti e doveri (sentenza n.138/10); 


  • nel giugno di quello stesso anno la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (sentenza n. 30141) ha stabilito che il diritto al matrimonio - regolamentato in alcuni Stati dell'Unione europea dove la legge non pone ostacoli all'amore - è riconosciuto anche alle coppie gay. Tali relazioni non sono più comprese solo nella nozione di "vita privata", ma anche in quella di "vita familiare";


  • tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la Cassazione (sezione I civile, sentenza n. 4184/12) ha riconosciuto la titolarità del diritto alla vita familiare (anche) alle coppie omosessuali che convivano stabilmente in una relazione di fatto. 


Va bene, ma come la mettiamo con la tecnica seguita per mettere al mondo il figlio di Ines e Barbara? Almeno questo aspetto contrasterà con l'ordine pubblico nazionale, considerando che l'art. 4 c. 3 della legge n. 40/2004 proibisce di ricorre alla fecondazione eterologa?
Assolutamente no, replicano Renata, Federica e Daniela, perchè - con grande rammarico del Vaticano e di tutti i fantocci di cui dispone(va) in Parlamento - la Consulta ha dichiarato incostituzionale il suddetto divieto ove sia diagnosticata una patologia che abbia causato una sterilità o un'infertilità assoluta e irreversibile (sentenza 10 giugno 2014, n.162). Tale pronuncia ha per giunta esteso il confine della "vita familiare" ai figli generati sia naturalmente, sia per mezzo della procreazione assistita (anche) eterologa.
Nell'individuare la maternità (così come la paternità) conseguita tramite il ricorso alla fecondazione eterologa, è giuridicamente ed eticamente rilevante - scrivono le giudici di Torino - "il concetto di volontarietà del comportamento necessario per la filiazione e quello di assunzione di responsabilità in ordine alla genitorialità così da attribuire la maternità e la paternità a quei genitori che, indipendentemente dal loro apporto genetico, abbiano voluto il figlio accettando di sottoporsi alle regole deontologiche giuridiche che disciplinano la PMA [Procreazione Medicalmente Assistita, N.d.A.]".
Del resto è il Decreto Legislativo n. 154/2013 (in vigore dal 7 febbraio 2014) che - riformando la normativa in materia di filiazione - ha individuato il concetto di "responsabilità genitoriale" come caratterizzante il rapporto di filiazione, ormai sempre più sganciato dall'appartenenza genetica. 
Sono dunque stati il Parlamento (durante l'esecutivo guidato da Mario Monti) e il Governo (presieduto da Enrico Letta) ad applicare il principio per cui la tutela del diritto allo status e all'identità personale può benissimo non identificarsi con la verità genetica (a dire il vero, nel 1999 la Cassazione - con la sentenza n. 2315 - aveva già respinto la tesi secondo la quale è la biologia a fondare il rapporto di filiazione).
Ragion per la quale vanno individuate - considerando anche i nuovi metodi riproduttivi che la scienza ha messo a disposizione - diverse figure genitoriali:

1) la madre genetica (cui risale l'ovocita fecondato);

2) la madre biologica (colei che conduce la gestazione);

3) la madre sociale (colei che si assume la responsabilità genitoriale);

4) il padre genetico;

5) il padre sociale.

Ok, ma che cosa c'entra l'ordine pubblico?
Ebbene, secondo Renata, Federica e Daniela, per il concetto di ordine pubblico e per riconoscere (o disconoscere) le sentenze straniere in materia di rapporto genitori-figli bisogna aver riguardo soprattutto all'interesse superiore del minore.   
In fondo, "la famiglia esiste non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo status e alla tutela del figlio", ammoniscono le tre giudici piemontesi.
Pertanto, nel valutare il miglior interesse per il minore, "non devono essere legati fra loro il piano del legame fra i genitori e quello fra genitore-figli: l'interesse del minore pone, in primis, un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio".
E' ancora la Corte europea dei diritti dell'uomo ad aver scritto in una sentenza del febbraio 2013 che "la relazione esistente tra una coppia omosessuale che convive di fatto in maniera stabile rientra nella nozione di vita familiare così come quella di una coppia eterosessuale che si trova nella stessa situazione: quando un minore vive insieme a loro la vita familiare comprende anche quest'ultimo".
La conclusione a cui giungono le giudici torinesi è chiara: la mancata trascrizione nel registro anagrafico comunale dell'atto di nascita del figlio di Ines e Barbara ha limitato e compresso il diritto all'identità personale del minore e il suo status all'interno dello Stato italiano, sul cui territorio è risultato non avere alcun rapporto di parentela con la madre Barbara.
Il piccolo - grazie all'omissione di un pubblico ufficiale - è rimasto privo di una persona che esercitasse la responsabilità genitoriale: nessuno avrebbe potuto rappresentarlo in caso di problemi sanitari o scolastici!
Lo Stato italiano, un Paese della civilissima Europa, ha così lasciato un bambino, un piccolo cittadino spagnolo (dunque europeo) non solo in una condizione di incertezza giuridica, ma gli ha pure negato qualsiasi rapporto successorio nei confronti della famiglia di Barbara.
Senza trascurare il fatto che - con il divorzio tra le due madri e l'affido congiunto del figlioletto - non aver trascritto il certificato di nascita in questione ha rappresentato un ulteriore pregiudizio, in quanto ha compromesso la libera circolazione del bimbo e della madre Ines, la quale in Italia non ha avuto titolo per spostarsi e tenere il figlio con sè.
Va bene che siamo in Italia, ma non dovrebbe servire un intelletto sviluppato per accorgersi che non costituisce di certo il miglior interesse del minore privarlo di un legame attraverso cui possa esprime il diritto di essere riconosciuto per quello che è naturalmente: un figlio.
Per fortuna lo Stato italiano (quello vero) è rappresentato anche da tre donne, tre magistrati, che - senza aver introdotto nulla di nuovo sul piano del diritto - hanno voluto e saputo rendere effettivo un diritto previsto dalla legge, garantendo "la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni, nell'esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge riconosce entrambe come madri".
Perchè, in fondo, anche in Italia la legge non pone ostacoli all'amore.


Questa è una storia tutta al femminile.
La storia di cinque donne: Ines, Barbara, Renata, Federica e Daniela.
Sono loro, oggi, le protagoniste del mio racconto.
E se ora l'oscurità di quel Paese che non sa riconoscere il sole 
è divenuta meno intensa, 
lo si deve alla luce di cinque stelle. 
A loro è dedicata questa storia e questa giornata.



P.S. Questo è il mio 150° post. Fermate il mondo... ma non la festa!!!

venerdì 6 marzo 2015

VALORIZZARE LA BRAVURA, L'ONESTA', L'INTELLIGENZA E LA CAPACITA', 
NON L'APPARTENENZA AL PROPRIO CLAN   

Mauro Rostagno (1942-1988)
"Quello che vale la pena di sottolineare, oggi, è di fermarci un attimo a pensare che cosa sta succedendo nella nostra Sicilia.
Da una parte, c'è clamorosamente su tutti i titoli della nostra e dell'altra stampa e delle fonti di informazione per l'intrico che c'è tra affari, mafia, massoneria e politica; e dall'altra parte, emerge una sottocultura del malcostume e della cattiva amministrazione, dominata da una cultura dell'appartenenza.
Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o se ha le mani sporche, se è intelligente o se è cretino, se uno sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell'acqua, ma quello che conta è l'appartenenza: si iddu m'apparteni o non m'apparteni.
Se tu fai parte della mia casta, della mia tribù, della mia corrente e allora la cosa vale, se invece non ne fai parte, non sei nessuno. 
Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pfttu, sputo e richiudo, e fuori deve stare, perchè quello che conta è l'appartenenza.
Il degrado dell'appartenenza è il clientelismo politico" 

Mauro Rostagno, intervento televisivo trasmesso da Rtc (Radio Tele Cine, emittente privata di Trapani) nella prima metà del 1988.




"Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto" 



Mauro Rostagno


Mauro Rostagno è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Mauro attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Mauro è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.