mercoledì 4 febbraio 2015

UN UOMO LIBERO TRADITO DA IENE E CAVALLOTTI

Libero Grassi  
Oggi voglio raccontare una storia significativa.
Non tanto per la vicenda in sé, quanto per il modo singolare - volendo usare un eufemismo - con cui è stata raccontata in un servizio della trasmissione televisiva "Le Iene", mandato in onda il 29 gennaio scorso e intitolato "Mafia, antimafia e aziende che affondano".

C'era una volta una famiglia palermitana di imprenditori, i Cavallotti.
Soprattutto c'erano i fratelli Salvatore e Vincenzo Cavallotti.
Un bel giorno vengono tratti in arresto e processati (anche) per il reato di associazione mafiosa.
Assolti in via definitiva perchè "il fatto non sussiste", si rivolgono alla Corte d'Appello di Palermo per chiedere un risarcimento danni, come riparazione per l'ingiusta detenzione patita per quasi 2 anni e mezzo (dal 10 novembre 1998 al 21 marzo 2001). 
Purtroppo per loro i giudici palermitani rigettano la domanda (ordinanze n. 22 e 33 del 25 ottobre 2013), considerando - come riassunto dalla Cassazione l'anno seguente - che:

"a) Cavallotti Vincenzo era rimasto coinvolto in un'indagine concernente l'aggiudicazione illecita degli appalti in Sicilia in quanto il suo nome era rinvenibile in un biglietto, che un collaboratore di giustizia aveva attribuito al noto boss mafioso Bernardo Provenzano, in cui si indicavano opere di metanizzazione riguardanti alcuni Comuni siciliani, aggiudicate ed eseguite da imprese amministrate da Cavallotti Vincenzo e dai suoi fratelli, con l'invito a "mettere a posto" tali imprese; 

b) in un'ulteriore lettera, il Provenzano aveva ringraziato il suo interlocutore per l'interessamento profuso in favore delle imprese Cavallotti e si era interessato affinché venisse recuperato materiale sottratto a tali imprese; 

c) in un dattiloscritto in possesso di Brusca Giovanni, sequestrato al momento del suo arresto e che Brusca aveva riferito essergli stato fatto recapitare dal Provenzano, si faceva riferimento alle imprese dei Cavallotti;

d) in un interrogatorio del 18 febbraio 1997 lo stesso Brusca aveva spiegato il significato di un suo appunto in cui si menzionava il nome Cavallotti, nel senso che avrebbe dovuto riferire al Provenzano a proposito della "messa a posto" di tale impresa; 

e) successivamente, le opere di metanizzazione erano state effettivamente affidate all'impresa di cui era amministratore unico e direttore tecnico Cavallotti Vincenzo; 

f) nel corso delle indagini, diversi collaboratori di giustizia avevano fatto riferimento all'inserimento delle imprese dei Cavallotti nel giro illecito di spartizione degli appalti".

Ovviamente entrambi i fratelli ricorrono in Cassazione.
E per entrambi il verdetto della Corte Suprema è lo stesso: le ordinanze dei magistrati siciliani vengono pienamente confermate, i ricorsi rigettati in quanto "infondati" e i ricorrenti condannati a pagare le spese processuali.

Per quanto riguarda Salvatore Cavallotti, la Cassazione emette il proprio verdetto irrevocabile l'8 aprile dell'anno scorso (sezione IV penale,  sentenza n. 22318).
Il collegio presieduto da Gaetanino Zecca scrive che il comportamento di Salvatore Cavallotti - "per quanto non rilevante a fini penali" - è stato "ambiguo" poichè - "come acutamente evidenziato dalle sentenze di merito" - "ha tenuto, nella sua qualità di amministratore della IMET e di socio della COMEST, una ambigua rete di rapporti con persone pericolosamente vicine a gruppi criminali di importante livello guidati da personaggi di primissima importanza nel panorama mafioso, quali Provenzano Bernardo, Madonia Giuseppe e Greco Leonardo".
Una simile condotta - definita "parapartecipativa" - costituisce quantomeno una "colpa grave", "sia con riguardo ai rapporti con esponenti mafiosi descritti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (la cui attendibilità è stata riconosciuta anche all'esito della sentenza assolutoria) che alla rete di contiguità delle imprese dei Cavallotti con esponenti dell'associazione mafiosa grazie alla quale le dette imprese avevano operato".
Imprese - le già ricordate IMET e COMEST - che hanno subìto un "avvicendarsi di ruoli" e un "succedersi di denominazioni e forme societarie" che Salvatore Cavallotti non ha saputo validamente giustificare.
Ecco dunque le conclusioni a cui giunge la Cassazione:
"Gli esiti delle gare di appalto in favore dei Cavallotti hanno costituito elemento oggettivo ai fini della conferma dei contatti della consorteria mafiosa con le imprese gestite dai medesimi, che non possono distinguersi nella conduzione aziendale ma devono essere considerati unitariamente ai fini delle frequentazioni ambigue con esponenti apicali di <<Cosa Nostra>> che i biglietti e lettere di Bernardo Provenzano, con il palese interessamento in loro favore, dimostrano a sufficienza".
Ma non è tutto: "a ciò s'aggiunga che comunque nella sentenza definitiva di assoluzione le dichiarazioni del collaboratore Siino [mafioso, poi pentito, ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, N.d.A.] [...] sono state considerate comunque significative di generiche contiguità e frequentazioni con esponenti mafiosi".

Per quanto riguarda Vincenzo Cavallotti, con la sentenza n. 32207 emessa il 27 giugno 2014, il collegio della IV sezione penale della Corte Suprema - presieduto da Vincenzo Romis - conferma pienamente l'ordinanza dei giudici d'appello di Palermo.
Essa - rifacendosi a quanto scritto dal Tribunale del Riesame - aveva sottolineato il fatto che "il boss mafioso Bernardo Provenzano avesse segnalato le imprese riconducibili ai fratelli Cavallotti chiedendo un intervento per la cosiddetta <<messa a posto>> di tali imprese in un momento anteriore, non solo alla celebrazione delle gare ma addirittura, al fatto che le gare fossero bandite".
Pertanto aveva dedotto che "tali imprese fossero riconducibili ad interessi diretti del boss latitante", evidenziando "come i fratelli Cavallotti si fossero avvicendati nell'amministrazione delle diverse imprese che facevano loro capo, senza apparenti e comprensibili ragioni esterne"
Ora, la sentenza di assoluzione non solo aveva confermato tale dato, ma "aveva ritenuto provato il coinvolgimento dei Cavallotti nel sistema di controllo delle attività imprenditoriali organizzato e gestito dagli esponenti di Cosa Nostra, pur escludendo la prova dell'appartenenza organica dei tre Cavallotti all'organizzazione mafiosa".
Ecco, dunque, il motivo per cui i Cavallotti sono stati assolti.
Inoltre, nella sentenza assolutoria "si riconosceva alla missiva attribuita al Provenzano un contenuto compatibile tanto con la mera soggezione estorsiva, quanto con il patto sinallagmatico con l'associazione e persino, infine, con l'instaurazione di un rapporto societario"
Ricapitolando.
E' vero che i Cavallotti sono stati penalmente assolti dall'accusa di essere mafiosi, data l'assenza di prove che dimostrassero "condotte specifiche [...] valevoli come controprestazione sinallagmatica nei confronti del sodalizio mafioso".
Ma è anche vero che "all'interessamento di esponenti di Cosa Nostra per la cosiddetta <<messa a posto>> delle imprese dei Cavallotti, si accompagnasse l'aggiudicazione e l'avvio della fase esecutiva degli appalti".
Ciò rende "verosimili" le dichiarazioni dei pentiti, secondo i quali le aziende dei Cavallotti avevano partecipato "all'accordo spartitorio degli appalti che aveva contrassegnato le relazioni di Cosa Nostra e di alcuni settori della politica siciliana con talune imprese".
Preso dunque atto del "complesso rapporto di contiguità dell'impresa gestita dal ricorrente [Vincenzo Cavallotti, N.d.A.] con esponenti dell'associazione mafiosa, non escluso dalla pronuncia assolutoria" e dell'"avvicendarsi di ruoli, denominazione e forme societarie, privo di adeguata giustificazione da parte di Cavallotti Vincenzo", è corretto - secondo la Cassazione - ritenere che "tali elementi, pur non ritenuti idonei dal giudice penale a fondare un giudizio di condanna per il reato associativo, fossero tuttavia valutabili in termini di colpa grave".
La Corte Suprema, quindi, conferma in pieno l'ordinanza emessa dalla Corte d'Appello di Palermo il 25 ottobre del 2013, in quanto "assume a fondamento del giudizio in merito alla sussistenza della colpa grave del ricorrente eventi concreti, quali i riscontri documentali e fattuali alle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, desumendone con ampia e congrua motivazione la relazione di contiguità tra l'impresa di cui Cavallotti Vincenzo era socio fondatore e amministratore, negli anni in cui si svolgevano le gare menzionate nei documenti sequestrati a boss mafiosi, e questi ultimi".


Ebbene, il servizio de "Le Iene" - realizzato da Matteo Viviani - ha raccontato la stessa vicenda presentando i Cavallotti quali martiri, "vittime della mafia e della malagiustizia", come sostiene - con non poca sfacciataggine - Vincenzo all'inizio del servizio.
Ma se è normale che i diretti interessati si difendano a spada tratta, non lo è affatto che un "giornalista" - pendendo dalle loro labbra - prenda per oro colato tutto ciò che essi affermano, avallandolo.
Così l'inviato del programma di Italia1 sfodera numerose perle di disinformazione.
Ad esempio, riferendosi implicitamente alla famiglia Cavallotti, ci rivela che essa ha "dedicato tutta la vita al lavoro" e ha "fatto lavorare bene le aziende" per poter realizzare un "unico desiderio""lasciare ai propri figli un futuro migliore".
Non c'è bisogno di dire - ma Viviani lo dice - ciò che "ha permesso" ai Cavallotti "di realizzare i propri obiettivi".
Ma "la passione", è ovvio, mica la mafia!
"Chiaramente davano fastidio" i membri di questa famiglia perseguitata, composta da personcine talmente perbene da essere state proclamate "innocenti".
D'altronde, "il giudice del penale non aveva mica detto che i Cavallotti non avevano nulla a che fare con la mafia", "decretando definitivamente che non sono mafiosi"?
Infine una postilla: "sia chiaro, nessuno vuole entrare in merito alle decisioni di un tribunale".
E infatti, a furia di non entrare nel merito, l'inviato de "Le Iene" si è "dimenticato" di raccontare fino in fondo che cosa dicono veramente le sentenze...

Ma ecco la vera perla di saggezza.
Si arriva al punto in cui "gli affari cominciano a girare", quindi "Cosa Nostra si fa avanti e comincia a chiedere il pizzo" ai Cavallotti.
Ebbene, dopo che il solito Vincenzo Cavallotti si giustifica sostenendo di "essere costretti a pagare il pizzo, perchè se non lo pagavamo non potevamo lavorare", ecco il solito Viviani che interviene per giustificare la giustificazione: "sia chiaro, non stiamo parlando dei giorni nostri, in cui finalmente la gente ha trovato il coraggio di denunciare le estorsioni, combattendo questo fenomeno. Ma degli anni d'oro di Cosa Nostra [cioè degli anni '90, N.d.A.], in cui non avevi molta scelta".
E già, perchè "tutti gli imprenditori in Sicilia, in quel periodo, erano costretti a pagare il pizzo" (come ci ricorda Salvatore Cavallotti) perchè "chi non pagava veniva ammazzato. C'era la paura. Dovevi pagare una percentuale al capo-mandamento del paese [...] Il 2, il 3, il 4%, a seconda dell'importo del lavoro" (come ci ricorda suo fratello Vincenzo).
Peccato, perchè secondo un vero imprenditore siciliano - che, diversamente dai Cavallotti, scelse di non pagare il pizzo e di denunciare sia alle forze dell'ordine, sia pubblicamente i propri estortori, riuscendo anche a farli arrestare - legittimare le collusioni con la mafia e il pagamento delle tangenti è "davvero sconvolgente. Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso della scarcerazione dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi", così facendo, si "suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento: e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che, come me, hanno invece cercato di ribellarsi?" (Parole pronunciate davanti a una platea di studenti, riprese da Umberto Rosso in un articolo  intitolato "<<Ho denunciato il racket e lo Stato ora lo legittima>>" e pubblicato su "la Repubblica" il 5 aprile 1991). 
Non solo.
A chi gli chiedeva: "Perchè non vuole pagare, visto che pagano tutti?", lui rispondeva: "Non mi piace pagare, perchè è una rinuncia alla mia dignità di imprenditore. Io divido le mie scelte con il mafioso. Questo è il vero fatto. Non è che io non abbia avuto avvicinamenti... [...] Non pago, preferisco stare nei miei affari";
a chi sosteneva che se tutti si comportassero come lui si distruggerebbero le industrie, lui replicava: "Se tutti si comportano come me, si distruggono gli estortori, non le industrie! Io è quarant'anni che ci vivo. Ancora non sono morto, la maggior parte dei miei anni lavorativi li ho fatti";
a chi gli ribatteva che gli imprenditori siciliani sono necessitati, perchè se vogliono esistere devono pagare il pizzo, lui controbatteva: "Ma questa necessità è un estremo limite... Io è quarant'anni che faccio l'industriale in Sicilia non sono andato mai a cena con Greco, con Marchese [cioè con i mafiosi, N.d.A.]. Io questa necessità estrema non l'ho avuta. [...] Non è detto che gli industriali debbano fare tutti gli affari, mandandoci in avanscoperta o per concedere i subappalti al mafioso. Ma chi l'ha detto? Rinunciano all'affare!" (Dichiarazioni rilasciate al programma televisivo "Samarcanda" nella puntata dell'11 aprile 1991).
Ma chi era questo imprenditore, titolare di una piccola azienda tessile di Palermo, che mantenne la schiena dritta, si rifiutò categoricamente di pagare tangenti alla mafia e denunciò con forza e a viso aperto la piaga delle estorsioni in Sicilia, nonostante avesse subìto anche una rapina e diverse intimidazioni?
Il suo nome è Libero Grassi.
Pagò con la propria vita per non aver mai pagato Cosa Nostra.
"sia chiaro, non stiamo parlando dei giorni nostri, in cui finalmente la gente ha trovato il coraggio di denunciare le estorsioni, combattendo questo fenomeno. Ma degli anni d'oro di Cosa Nostra, in cui non avevi molta scelta" (per usare le parole di Viviani citate sopra).
Già, ma Libero Grassi quella scelta non la fece perchè - a differenza dei Cavallotti e di sedicenti "giornalisti" che si prestano a far apparire questi ultimi come povere vittime sacrificate sull'altare della legalità - era un uomo libero, di nome e di fatto.
Un uomo libero tradito da Iene e Cavallotti.

<<Su, Cavallotti, non piangere! Io ho fatto il possibile...>>

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