lunedì 16 febbraio 2015

ESSERE DETERMINATI A FARE SEMPRE IL PROPRIO DOVERE, SENZA CURARSI DEI PERICOLI

Mario D'Aleo (1954-1983)
Il Capitano dei Carabinieri Mario D'Aleo era "l'ufficiale che voleva fare luce su Cosa nostra, scoprire i responsabili dell'assassinio del capitano Emanuele Basile (al quale era subentrato nel comando della compagnia di Monreale), ricostruire l'organigramma del nuovo vertice corleonese e arrestare il crescente dominio della cosca dei Brusca e dei loro accoliti. 
Sin dal momento del suo insediamento l'ufficiale aveva proseguito, con lo stesso zelo, l'attività del suo predecessore. 
D'Aleo voleva contrastare la cosca di San Giuseppe Jato, capeggiata da Bernardo Brusca e avente come referente a Monreale Salvatore Damiani. 
Aveva avviato indagini per colpire le iniziative economiche dei boss e a catturare i latitanti che si nascondevano in quell'area, fra i quali lo stesso Bernardo Brusca e Salvatore Riina (in quel periodo in contrada Dammusi), avvalendosi anche della collaborazione dell'appuntato Bommarito, che aveva già operato a fianco del capitano Basile. 
Aveva portato avanti la sua attività tramite perquisizioni, fermi e arresti, fra i quali quello per favoreggiamento personale di Giovanni Brusca, sospettato di aver dato alle fiamme un automezzo nella zona di San Giuseppe Jato. 
Non valsero a scoraggiarlo le parole sottilmente minatorie del nonno di Giovanni, Emanuele Brusca, che lo accusò di perseguitare la loro famiglia. 
L'appuntato Bommarito con il capitano Basile si era occupato di indagini che consentivano di sorprendere Salvatore Damiani, mentre teneva una riunione con altri soggetti ritenuti appartenenti alla mafia e ne era scaturito un conflitto a fuoco. Tali precedenti avevano indotto il capitano D'Aleo a ritenere che Damiani fosse mandante nell'omicidio del suo predecessore. 
Aveva compreso quale fosse il peso mafioso della famiglia Brusca e quando incrociava qualcuno di loro non mancava di fermarlo e di sottoporlo a controlli, dimostrando di voler compiere il suo dovere senza farsi condizionare dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni. 
Quel giovane ufficiale aveva, perciò, il destino segnato. 
La mafia disponeva di una forza immensa e aveva alzato la mira contro uomini politici, magistrati, funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, mostrando di avere un disegno politico ben determinato. 
Un funerale di Stato onorò la morte di quei tre appartenenti alle forze dell'ordine, oggi dimenticati [insieme al Capitano Mario D'Aleo, furono uccisi l'Appuntato Giuseppe Bommarito e il Carabiniere Pietro Morici, N.d.A.]
[…] Se oggi le istituzioni sono riuscite in Sicilia a ottenere una credibilità nelle menti dei siciliani - purtroppo ancora imprigionate dalla paura - lo si deve al sacrificio di uomini come D'Aleo, Bommarito e Morici, la cui storia racconta la forza inesauribile dello Stato e la tenacia dei valori positivi che la mafia e i suoi alleati all'interno di alcuni partiti politici (che non ritengono inaffidabili i loro esponenti nemmeno se risultano comprovati i loro consapevoli legami con i mafiosi), delle amministrazioni pubbliche locali e nazionali, di esponenti collusi del mondo economico e delle libere professioni cercano di cancellare. 
Se dopo un quarto di secolo in una delle regioni più povere d'Italia, Confindustria e alcuni suoi valorosi esponenti hanno trovato il coraggio di reagire e di sfidare il sistema delle estorsioni e del pizzo, numerosi giovani e adulti si sono riuniti per dare vita a comitati (come Addio Pizzo) e ad associazioni (come Libera), portando avanti una campagna in difesa della legalità, un po' di merito va riconosciuto anche a quei carabinieri in divisa troppo presto strappati alla vita. 
Ricordare il loro tragico destino rappresenta un doveroso tributo alla loro memoria e al dolore dei loro cari"

Luca Tescaroli, articolo intitolato "L'eroismo del capitano D'Aleo" e pubblicato su "la Repubblica" (edizione locale di Palermo) il 13 giugno 2008. 





"Comandante di Compagnia Carabinieri operante in zona ad alto indice di criminalità organizzata, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva, con elevato senso del dovere e sprezzo del pericolo svolgeva tenacemente opera intesa a contrastare la sfida sempre più minacciosa delle organizzazioni mafiose. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua giovane vita in difesa dello Stato e delle istituzioni. Palermo, 13 giugno 1983"

Motivazione del conferimento al Capitano dei Carabinieri Mario D'Aleo della medaglia d'oro al valor civile, assegnata il 31 agosto 1983.





Mario D'Aleo
"[…] il Capitano Mario D'Aleo era subentrato, nel comando della Compagnia dei CC. Monreale, al Capitano Emanuele Basile che era stato ucciso da Cosa Nostra il 4.5.1980. 
Fin dal momento del suo insediamento, il Capitano D'Aleo aveva proseguito, con lo stesso zelo, l'attività di polizia giudiziaria del suo predecessore, volta a contrastare gli interessi mafiosi nel territorio ove imperversava la potente cosca di San Giuseppe Jato, comandata da Brusca Bernardo ed avente come referente, a Monreale, Damiani Salvatore. 
L’ufficiale aveva, pertanto, avviato una serie di indagini indirizzate a colpire le iniziative economiche riferibili ai suddetti esponenti mafiosi ed alla cattura dei latitanti che si nascondevano nella zona, fra i quali lo stesso Brusca Bernardo, avvalendosi a tal fine anche della collaborazione dell’Appuntato Bommarito, il quale aveva già operato a fianco del Capitano Basile. L’Appuntato Bommarito, con il Capitano Basile, si era occupato di penetranti indagini nei confronti di Damiani Salvatore, nel corso delle quali i militari avevano sorpreso il boss mentre teneva una riunione con altri soggetti ritenuti appartenenti ad associazione mafiosa e ne era scaturito un conflitto a fuoco. E tali precedenti avevano indotto il Capitano D'Aleo a ritenere che il Damiani fosse coinvolto, quale mandante, nell'omicidio del suo predecessore; sicché l’ufficiale non aveva mai distolto la sua attenzione su quel boss, sottoponendolo fra l’altro ad un fermo in quanto indiziato di essere coinvolto in alcuni episodi di <<lupara bianca>> verificatisi nell'82 e proponendolo per l'applicazione della misura di prevenzione, sia personale che patrimoniale. 
Contemporaneamente, il Capitano D'Aleo si era attivato, anche mediante una serie di perquisizioni, al fine rintracciare il latitante Bernardo Brusca. L’ufficiale, infatti, aveva ben compreso quale fosse il peso mafioso nella zona dei diversi componenti della famiglia del Brusca e, per questo, quando incrociava qualcuno di loro, non mancava di fermarlo e sottoporlo a controlli"
Va messa in risalto l'"attività di contrasto a Cosa Nostra svolta dal Capitano D'Aleo, nel territorio della Compagnia dei CC. di Monreale coincidente con quello del mandamento di San Giuseppe Jato, divenuto una delle principali roccaforti dei <<corleonesi>>. 
[…] in quel periodo nella zona trascorreva la latitanza il capo mandamento Brusca Bernardo; ma anche Riina Salvatore era solito risiedervi, nella proprietà in contrada Dammusi ove il 30.11.1982 era stato ucciso Riccobono Rosario e, peraltro, nella stessa contrada, nel 1985, verrà arrestato Brusca Bernardo. 
Il Capitano D'Aleo, al pari del suo predecessore, non si era limitato a ricercare quei pericolosi latitanti mediante un'azione pressante anche nei confronti dei loro familiari (come il giovane Brusca Giovanni), ma aveva sviluppato indagini dirette a colpire i ramificati interessi mafiosi nella zona. 
Nel portare avanti quest'attività, anche tramite fermi ed arresti, l'Ufficiale aveva dimostrato pubblicamente di volere compiere il suo dovere, senza farsi condizionare dal potere mafioso acquisito dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni. Pertanto, è lecito ritenere che la motivazione dell’uccisione del Capitano D'Aleo risieda nella necessità di fermare un'azione di polizia giudiziaria che prima o poi avrebbe dato i suoi frutti con danni incalcolabili, essendosi peraltro acquisita la consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un altro servitore dello Stato assai determinato e in grado di mettere a repentaglio lo stesso prestigio da sempre goduto dai mafiosi in quel territorio. 
Al riguardo, è esemplificativo l’episodio relativo all'arresto di Brusca Giovanni avvenuto nel gennaio 1982, a seguito del quale l'anziano Brusca Emanuele era stato costretto ad uscire allo scoperto e recarsi personalmente presso la caserma dei Carabinieri per lamentarsi del trattamento riservato alla sua famiglia e lanciare sinistri avvertimenti al Capitano D'Aleo. 
Ve ne è, dunque, abbastanza per individuare il movente mafioso del delitto e per rendersi conto di come esso avrebbe dovuto essere eseguito al più presto, anche a costo di inasprire - ancora una volta - lo scontro con lo Stato. 
[…] il Capitano D'Aleo turbava la tranquillità del Riina e di Brusca Bernardo, minacciando anzitutto la loro latitanza in quel territorio"; inoltre "le circostanze dell’arresto di Brusca Giovanni costituivano un ulteriore segnale della determinazione con la quale l'Ufficiale voleva espletare i suoi compiti, senza curarsi della pericolosità e tanto meno della suscettibilità dei predetti boss mafiosi. 
[…] Alla stregua di quanto fin qui rilevato, può dunque affermarsi che l'omicidio del Capitano D'Aleo e degli altri due militari che lo accompagnavano, è da ascriversi a Cosa Nostra. 
Si volle così fermare l'azione di un coraggioso Carabiniere che avrebbe potuto ledere gli interessi ed il prestigio del sodalizio nel territorio del mandamento di San Giuseppe Jato, in quel periodo divenuto uno dei più importanti di Cosa Nostra. 
Addirittura, il Capitano D'Aleo stava mettendo in pericolo la latitanza di due boss del calibro di Bernardo Brusca e Riina Salvatore"

Corte di Assise di Palermo, sezione I, sentenza n. 22/01 emessa il 16 novembre 2001.





"Un anno fa, mi ricordo, lo incontrai in ascensore. 
Era tornato a Roma per passare in licenza qualche giorno qui, in casa del genitori. 
<<Mario>> gli chiesi <<ma non ti fa paura stare laggiù, a Monreale, con quell'incarico che ti hanno affidato?>>. 
Gli dissi proprio così, perchè sa, per me quel povero ragazzo era come un figlio. 
L'avevo visto nascere, gli volevo un gran bene. 
Tutti gli eravamo affezionati e lo seguivamo attraverso i racconti del padre e della madre orgogliosi. 
Cosa vuole, ventinove anni e capitano dei carabinieri, addirittura comandante di una compagnia in Sicilia.
Così giovane e così ben portante. 
Allora lui mi rispose con quel sorriso schietto che aveva: 
<<Non potevo rifiutare di prendere il posto di un collega ammazzato come un cane. E poi vede, la mafia non è potente come si crede. E’ pericolosa, certo, ma io, per quel poco che posso fare, ce la sto mettendo tutta, per sconfiggerla>>. 
[…] Poveretto, era uno che non si stancava mai. 
Non perdeva tempo. 
Dopo la licenza liceale si era iscritto all'Accademia di Modena. Il corso conseguito brillantemente e infine l'incarico: da tre anni era a Monreale a dirigere la stazione che era stata del capitano Emanuele Basile trucidato da sicari mafiosi"
Visto che Mario D'Aleo si sarebbe dovuto sposare a breve con una ragazza romana, "sapesse come hanno insistito i genitori: volevano che rientrasse da lì e col pretesto del matrimonio speravano di convincerlo. La madre, soprattutto, si lamentava: <<Vogliono stabilirsi laggiù, in Sicilia. Ma io non sono tranquilla, preferirei che restassero a Roma, vicino a noi>>. 
[…] Ma anche se avesse saputo quello che stava per accadere, non avrebbe mollato"

Testimonianze raccolte da Valeria Parboni nella casa romana dei genitori di Mario D'Aleo (dove anche lui aveva vissuto) e pubblicate nell'articolo "<<Ricordo che una volta mi disse: "La mafia? Può essere battuta">>" apparso su "l'Unità" il 15 giugno 1983.


Mario D'Aleo è morto e continuerà ad esserlo se noi non ne facciamo vivere le passioni e gli ideali nelle nostre piccole e grandi esperienze.
Sfrattiamo dalle nostre menti l'indifferenza.
Scacciamo l'ignavia dai nostri cuori.
Impegniamoci, dunque!
Facciamo vivere Mario attraverso le nostre azioni, le nostre parole e i nostri pensieri quotidiani.
Dimostriamo concretamente e senza ipocrisie che lui vive - davvero - con noi e dentro di noi.
Facciamone memoria piena, autentica, pratica.
Evitiamo di mettere in atto la solita, stucchevole, retorica messa in scena utile solo a farci credere - illusi - che la nostra coscienza sia a posto.
Come oggi è il giorno in cui un bimbo di nome Mario è sbocciato alla vita, così il testamento morale che questi ci ha lasciato sbocci nella mente e nel cuore di ognuno di noi.
Già, perchè adesso tocca a noi.
Soltanto a noi.

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