domenica 21 dicembre 2014

CORSI E RICORSI (STORICI e INFELICI)

Carlo Alberto dalla Chiesa 


"Un uomo fa ciò che è suo dovere fare
- quali che siano
le conseguenze personali,
quali che siano gli ostacoli,
i pericoli e le pressioni -
e questo è la base
di tutta la moralità umana"

John F. Kennedy,
"Ritratti del Coraggio"
(traduzione di "Profiles in Courage"), 1956





Erano le 18.00 di mercoledì 16 dicembre 1987, quando nell'aula bunker di Palermo entrò la Corte d’Assise presieduta da Alfonso Giordano, con Pietro Grasso giudice a latere.
Dopo 349 udienze, 1.820 ore di processo, 1.314 interrogatori, 666.000 fotocopie di atti processuali e 35 giorni di camera di consiglio (846 ore e 45 minuti per essere precisi), finalmente era giunto il momento tanto atteso (e da molti temuto): il popolo italiano stava per conoscere il verdetto di 1° grado del maxiprocesso contro Cosa Nostra.
La memoria allora tornò a due anni prima, alle 17.30 di venerdì 8 novembre 1985.
Quel giorno, a quell'ora, era stata depositata nella cancelleria del Tribunale palermitano un'importantissima ordinanza-sentenza emessa dal capo dell'Ufficio Istruzioni Processi Penali, il Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto
Composta da 40 volumi, 8.636 pagine (firmate - una per una - dallo stesso Caponnetto in 4 ore e mezza di tempo, circa 2 secondi a pagina), 19 volumi di documentazione bancaria allegati e 3 elenchi di ordini e mandati di cattura, essa costituiva il frutto della dedizione, dell'abnegazione e delle capacità dei giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli. 
Grazie al loro impegno erano state rinviate a giudizio 475 persone, delle quali molte per narcotraffico e 17 per aver ordinato ed eseguito l'omicidio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa.  
Ma una delle novità più importanti era stata che quasi l'80% degli imputati (ben 377) avrebbe dovuto rispondere del nuovo reato di "associazione mafiosa" (p. e p. dall'art. 416-bis c.p.), introdotto dalla legge Rognoni-La Torre solamente tre anni prima (il testo - definitivamente approvato dal Parlamento l'11 settembre del 1982, appena otto giorni dopo la strage di via Carini - sarebbe stato promulgato dal Presidente Sandro Pertini il 13 settembre successivo).
Ora stava per arrivare il giudizio di una Corte d'Assise.
Era la prova del nove.
Ecco il verdetto: 

19 ergastoli (Giuseppe Lucchese, Salvatore Montalto, Francesco Spadaro, Antonio Sinagra, Giuseppe Greco, Michele Greco, Francesco Madonia, Antonino Marchese, Filippo Marchese, Giuseppe Marchese, Bernardo Provenzano, Giovanbattista Pullarà, Rosario Riccobono, Totò Riina, Salvatore Rotolo, Nitto Santapaola, Pietro Senapa, Vincenzo Sinagra, Pietro Vernengo);

23 anni di reclusione a Pippo Calò;

7 anni di reclusione all'ex potentissimo esattore democristiano Ignazio Salvo (amichetto di Giulio Andreotti);

6 anni di reclusione al pentito Salvatore Contorno;

3 anni e 6 mesi di reclusione al pentito Tommaso Buscetta;

2.665 anni di reclusione inflitti;

11 miliardi e 542 milioni di multa impartiti;

114 assoluzioni (tra cui quella di Luciano Liggio), quasi tutte per insufficienza di prove.

“L’impianto teorico e tecnico dell'ordinanza dei giudici istruttori di Palermo, firmata da Antonino Caponnetto che prese il posto di Rocco Chinnici, assassinato, ha superato così agevolmente tutte le insidie del dibattimento”, avrebbe scritto l'indomani Saverio Lodato sulle pagine de "l'Unità".

Eh, sì, il pool antimafia di Caponnetto, Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello aveva avuto ragione.
Da sinistra a destra:
Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto
Che vittoria!
Tanto straordinaria perchè assolutamente non scontata, visti i precedenti (i processi si concludevano sempre con l'assoluzione degli imputati per scarsità di elementi probatori).
Ma se molti si dissero soddisfatti, altrettanti giurarono vendettaNon solo e non tanto i mafiosi, quanto piuttosto diversi esponenti delle Istituzioni, magistrati compresi.
E la vendetta non tardò ad arrivare.
Appena 33 giorni dopo quell'importantissima sentenza, il Consiglio Superiore della Magistratura - chiamato a scegliere il successore di Caponnetto alla guida dell'Ufficio Istruzione del Tribunale del capoluogo siciliano - bocciò Giovanni Falcone, nominando il più anziano (e assai meno esperto di mafia) Antonino Meli. Questi i numeri della scandalosa votazione:
14 voti per Meli;
10 voti per Falcone;
5 (decisivi) astenuti.        
Quella notte del 19 gennaio 1988 segnò la fine del pool antimafia e la dispersione delle più formidabili competenze dell'epoca in tema di contrasto alla criminalità mafiosa.
In pochi mesi, infatti, Meli sparpagliò in mille rivoli le indagini, suddividendole fra le varie procure siciliane secondo il principio della competenza territoriale. 
Ecco perchè quattro anni dopo Antonino Caponnetto, intervistato da Franca Selvatici, avrebbe dichiarato: 

“Sono convinto che Giovanni cominciò a morire il 18 gennaio '88, quando il Csm gli preferì Meli alla guida dell' ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c' è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. [Falcone era sempre più solo, N.d.A.], e non c' è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l' essere isolato” (articolo intitolato "<<Scelsero Meli e Giovanni cominciò a morire>>", pubblicato su "la Repubblica" del 25 giugno 1992).

Ed ecco perchè Paolo Borsellino avrebbe condiviso pubblicamente l'opinione di Caponnetto la sera di quello stesso 25 giugno del 1992:

<<Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. […] quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988 [in realtà, come abbiamo visto, si tratta della notte del 19 gennaio, N.d.A.], se non forse l'anno prima, in quella data che or ora ha ricordato Luca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Luca Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica. 

Paolo Borsellino
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. […] Si aprì la corsa alla successione all'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. […] La protervia del consigliere istruttore [Antonino Meli, N.d.A.], l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di Cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. […] l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice "cominciò a morire nel gennaio del 1988" aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare>> (discorso pronunciato nell'atrio della biblioteca comunale di Palermo nel corso di un convegno-dibattito dal titolo E’ solo mafia?”, organizzato da "MicroMega" in occasione della presentazione dell’ultimo numero della rivista. Fu l'ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino: 24 giorni dopo sarebbe stato ucciso).


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Io non dimentico, non voglio dimenticare, non devo dimenticare!
Soprattutto se oggi, 27 anni dopo, il Csm torna sul luogo del delitto, eseguendo l'ordine impartito da Sua Maestà Re Giorgio I (anzi, II) di "normalizzare" gli uffici giudiziari palermitani e di lasciare sempre più soli i pm che rischiano la vita (come Nino Di Matteo).
Più che un Consiglio Superiore della Magistratura sembra una Cricca Sottomessa al Monarca.
Speriamo che con questo scellerato atto di subordinazione all'anziano sovrano non sia stato sancito l'inizio della fine anche per i magistrati succeduti a Falcone. 
Ecco perchè, in questo inquietante ritorno al passato più nefasto, vorrei rivolgermi a tutte quelle ridicole comparse avvezze ad adagiare le proprie flaccide facce su dei comodi scranni ministeriali o parlamentari. 
Carissimi (sì, come no...), 
non so se ve lo ricordate, ma il vostro compito non consiste nel collaborare con i mafiosi, nel facilitare loro la vita (cioè la morte degli onesti) e nel garantire aiuto e incoraggiamento ai peggiori criminali.
Il vostro incarico è molto più semplice.
Si tratta solo di mettere in pratica - e dopo la bellezza di 67 anni sarebbe anche ora!!! - un paio di principi fondamentali della nostra Repubblica, ovvero:

1) riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 della Costituzione);

2) "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione).

Anche se non nutro alcun dubbio sul vostro indiscusso quoziente intellettivo, ritengo sempre valido il vecchio motto "repetita iuvant" (tranquilli, non è inglese; è latino, la lingua parlata da quei vostri colleghi scomparsi misteriosamente pochi anni prima che voi nasceste). Ragione per cui intendo 
regalarvi - a differenza vostra io non sono attaccato al denaro - una riflessione preziosa di un grande magistrato, uno dei più esperti e incisivi nella lotta alle mafie, quindi da voi comprensibilmente disprezzato: Gian Carlo Caselli.

"Anche se allarmata, la politica non ha mai smesso di delegare l'antimafia pressochè esclusivamente alla repressione (forze dell'ordine e magistratura), sottraendosi alle sue responsabilità. Voglio ancora citare una frase di dalla Chiesa, che credo torni utile per meglio illustrare le caratteristiche del contrasto fra Stato e criminalità organizzata in questi anni difficili. Teniamo conto che il generale era uno Sbirro (con la S maiuscola!), un uomo di manette. Diceva dunque dalla Chiesa: <<Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati>>.
Insomma, quest'uomo di manette aveva ben chiaro che l'antimafia della repressione, alla quale anche lui apparteneva, da sola non bastava: ci volevano anche l'antimafia sociale o dei diritti, assieme a quella della cultura.

Gian Carlo Caselli abbraccia Antonino Caponnetto
Perchè se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare il loro potere. Così la mafia vince sempre. E i mafiosi ne sono ben consapevoli. Lo dice con schietta brutalità Pietro Aglieri [importante boss di Cosa Nostra, N.d.A.] ad un collega di Palermo [il magistrato Alfonso Sabella, N.d.A.] che lo stava interrogando: <<Quando voi venite nelle nostre [sic] scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri [sic] ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi?>>. Ecco, finchè i cittadini, invece dello Stato, troveranno soprattutto i mafiosi, finchè saranno costretti ad essere sostanzialmente loro sudditi, la guerra alla mafia non sarà vinta" (dal libro "Vent'anni contro. Dall'eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa", dialogo tra lo stesso Caselli e Antonio Ingroia a cura del giornalista Maurizio De Luca, uscito nelle librerie il 21 novembre 2013).

Ora, non vi chiedo di eleggere Caselli alla Presidenza della Repubblica (anche se sarebbe meraviglioso!), ma se non altro di fare tesoro delle sue parole.
Certo, capisco che nei vostri panni è difficile mantenere simili impegni, considerati gli enormi sacrifici che una tale rivoluzione vi costerebbe.
Vedete almeno di impegnarvi, anche se qualcosa mi dice che continuerete - imperterriti e impuniti - a prestare le vostre premurose attenzioni alle cause dei delinquenti, ignorando come sempre quelle degli onesti.
Del resto, non siete (anche) "ignoranti"?

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