domenica 19 ottobre 2014

SUPPOSTA (E) TRATTATIVA


"L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra, in maniera indiscutibile, che nella seconda metà del 1992 vi fu un “contatto” tra il ROS dei Carabinieri e i capi di “cosa nostra”, attraverso Vito Ciancimino. I termini personali e temporali di questo “contatto” sono praticamente certi, essendo stati narrati da due testi qualificati, come il generale Mori e il capitano De Donno. Essi hanno chiarito che iniziò nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, e si protrasse fino al 18-10-92, giorno in cui, dovendo “stringere” il discorso, divenne chiaro che i due interlocutori istituzionali non avevano nulla da offrire alla controparte. Continuò poi fino al 19-12-93 nella prospettiva di giungere all’arresto di Riina. Per comprendere questa vicenda, quindi, non è necessario, se non marginalmente, fare riferimento a ciò che dicono i collaboratori, in quanto nelle parole dei due testi sopra indicati vi è tutto quello che occorre per farsi un’idea dell’accaduto. 
[…] Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di “trattativa”, “dialogo”, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di “cosa nostra” per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi).
Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.
Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca. Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare. Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva “prenderla” da nessuno […]. Eppure, egli ne parlò in termini assolutamente convergenti (e speculari) con quelli introdotti dai due testi di Polizia Giudiziaria sopra esaminati. Infatti, confrontando il racconto di Brusca e quello di Mori e De Donno balza evidente che parlano della stessa cosa: uomini, tempi, oggetto tornano con assoluta precisione; o almeno, tornano in maniera tale da escludere che testi e collaboratore parlino di cose diverse. 
Questo vale, innanzitutto, per gli uomini: i testi hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i “corleonesi”; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina.
Vale per i tempi: i testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio; la richiesta di accreditamento fu fatta da Ciancimino l’1-10-92; l’interruzione della trattativa avvenne il 18-10-92. Brusca ha reso dichiarazioni assolutamente speculari [...]. Sta di fatto che, in ciò che ha raccontato Brusca, vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno.
Vale anche per l’oggetto. I testi non hanno fatto alcun riferimento alle richieste avanzate da “cosa nostra” per porre fine alle stragi; anzi, hanno espressamente escluso di aver mai sentito parlare di “papello”. Brusca, dal canto suo, ha dichiarato di aver appreso da Riina di richieste condensate in un lungo “papello”. Personalmente, senza aver ricevuto spiegazioni di sorta, comprese che Riina si riferiva agli istituti giuridici che più angustiavano “cosa nostra” in quel periodo: il 41/bis, la legge sui collaboratori, la riapertura dei processi, ecc. Non è inutile dire che questa diversità di racconto può avere varie spiegazioni […]Nell’un caso e nell’altro non autorizzano alcuna conclusione negativa su Brusca. Per converso, v’è da rimarcare come le indicazioni di Brusca siano perfettamente congruenti con quanto detto dai testi circa lo scopo dichiarato del contatto: avviare una trattativa per porre fine alle stragi.
E’ ovvio che la trattativa presuppone un do ut des: Riina offriva la fine delle stragi per avere soddisfazione sui punti che […] maggiormente lo angustiavano. Anche in questo caso la convergenza (solo logica questa volta, ma non meno significativa) tra testi e collaboratore è completa.
Tutto ciò induce allora a ritenere che Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare ai suoi accoliti) che “quelli si erano fatti sotto”Lo indusse, cioè, a ritenere che le stragi di Capaci e via D’Amelio, da poco avvenute, avevano completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti dell’invincibilità di “cosa nostra”; li avevano indotti a rinunciare all’idea del “muro contro muro” ed a fare sostanziali concessioni all’organizzazione criminale cui apparteneva. Nel frattempo, diede il “fermo” alle iniziative in programma […].
Questo convincimento rappresenta la conclusione più “ragionevole” dell’iniziativa del ROS, a cui si potrebbe pervenire anche in assenza di collaboratori che ne facciano menzione. Il fatto che sia stato riferito da Brusca illo tempore (cioè, prima che la vicenda divenisse pubblica) costituisce sicuramente un segno sia della bontà del ragionamento, sia della sincerità del collaboratore.
Questo convincimento rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento, che, nonostante le più buone intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.
Prova ne sia che, appena i “corleonesi” intravidero difficoltà nella conclusione della trattativa (cioè, nella soddisfazione delle loro pretese) pensarono ad un’altra strage per “stuzzicare” la controparte: uccidere il dr. Grasso e coloro che gli stavano intorno. Di questo progetto criminale ha parlato […] Brusca, il quale ha indicato tempi, modalità e motivazione di questo ennesimo delitto. La verità di ciò che dice si apprezza già solo considerando i tempi in cui, a suo dire, quest’assassinio doveva essere commesso (ha parlato, infatti, di settembre-ottobre del 1992 come dell’epoca in cui ricevette l’incarico da Biondino; epoca che, come si è visto, è proprio corrispondente a quella in cui, secondo il gen. Mori, avvenne l’interruzione della trattativa). Ma si apprezza altresì considerando che non è il solo che parla di questo progetto criminale. Anche La Barbera, infatti, sapeva che nel 1992 era in programma quest’attentato e che s’inseriva nel quadro delle azioni volte a dimostrare “chi comanda qua in Italia”Ganci Calogero, dal canto suo, sapeva che, qualche mese dopo l’arresto di Riina, Provenzano “voleva mettere una bomba per uccidere il dottor Grasso”. Segno, evidentemente, che il progetto, maturato prima dell’arresto di Riina, aveva attraversato quest’evento per connotare (anche) la stagione di morte del periodo successivo. Il convincimento che indusse i corleonesi a mettere gli occhi sul dr. Grasso non venne meno, quindi, con l’arresto di Riina, sia perché questi (sebbene impedito nei movimenti) non uscì certamente di scena con l’arresto, sia perché non era un convincimento a lui esclusivo (si è visto che della trattativa, come delle iniziative che dovevano secondarla, sapevano, quantomeno, Brusca e Biondino; nonché, come si vedrà, Bagarella). Quel convincimento, giova sottolineare e specificare, riguardava la bontà di un metodo: il metodo dell’assalto verso chi mancava del cuore per difendersi (per difendere, in realtà, i suoi cittadini e il suo patrimonio). Esso, unito all’attenzione che, contestualmente, stava maturando verso il patrimonio artistico nazionale, costituirà il presupposto della stagione di fuoco che, di lì a poco, si aprirà. 
Si deve dire, quindi, che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi, giacché metodo ed oggetto, così come le finalità, erano già presenti, con sufficiente precisione, alla mente di coloro che muovevano le fila di “cosa nostra”. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela esplosiva già pronta e confezionata.    
[…] Si è già visto che tutta la parte delle sue [di Brusca, N.d.A.] dichiarazioni concernente […] la trattativa tra Gioè e Bellini, nonché la trattativa tra il ROS e Ciancimino, è stata espressamente confermata dai testimoni che vissero dall’interno queste vicende.
[…] Sempre dai collaboratori (ma non solo da loro) è stato reso noto lo strumento di cui i capi mafiosi intendevano servirsi per raggiungere i loro fini. Questo strumento era la “trattativa”.
Anche in questo caso sono molti coloro che ne parlano, e tutti in maniera non equivoca. Infatti:

per Brusca: “…si vuole continuare in questa strategia perché si cerca di riportare lo Stato a trattare con noi, cioè con la mafia per potere usufruire sempre di quei benefici per avere una trattativa per riscendere a patti e per avere, ripeto, sempre qualche beneficio”.

La Barbera ha così espresso la finalità degli attentati: “…di fargli capire che Cosa Nostra c'ha i suoi metodi per potere scendere a patti con queste persone”.

Per Sinacori: “…solo con le bombe nel patrimonio artistico potevamo cercare un contatto con qualche politico, con qualcuno delle Istituzioni che poteva venirci a dire qualcosa: 'perché non la smettete?', questo discorso”.

Per Geraci (che riporta quanto gli domandò Matteo Messina Denaro): “…tu non credi che, facendo questi attentati, qualcuno non si interessi che vada a trovare Riina per scendere a un compromesso? Ecco, questo”.

Di Filippo Pasquale: “Quindi il motivo di queste stragi è stato un ricatto verso lo Stato. Praticamente: 'o togli Pianosa, Asinara e 41-bis, o noi ti facciamo saltare i monumenti'”.

Calvaruso (riferito a Bagarella): “Aveva paura, una paura tremenda di questo fenomeno collaboratori, e quindi cercava di mettersi a patto con lo Stato per farlo regredire proprio nei confronti, sui confronti dei collaboratori”.

Cosentino Antonino: “Gli attacchi dovevano servire a mettere in ginocchio lo Stato, affinché scendesse a patti con cosa nostra”.

[…] Nella valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori suddetti va poi tenuto conto del fatto […] che le dichiarazioni di costoro hanno ricevuto, in tema di causale o di aspetti che lambiscono la causale, significativi riscontri esterni su alcuni punti verificabili del loro racconto.
Ciò vale per […] la “trattativa del papello”, che è stata consegnata a questa Corte, direttamente, dagli ufficiali del ROS, e non da Brusca.
[…] lo scopo immediato delle stragi era quello di instaurare una trattativa con lo Stato (per la qualcosa occorreva un interlocutore riconoscibile). Va considerato, infatti, che gli interlocutori istituzionali non erano, per i mafiosi impegnati nella campagna stragista, né l’opinione pubblica né gli investigatori. Erano, invece, frange particolari dell’apparato statuale, con cui erano in contatto o che ritenevano di poter contattare. Per costoro la matrice mafiosa di tutti questi attentati sarebbe stata ben comprensibile o facile da comprendere (o da far comprendere). Il depistaggio era pensato per gli investigatori e per l’opinione pubblica, di cui temevano la reazione. Deve dirsi, quindi, che le stragi di cui i dirigenti mafiosi intendevano servirsi per instaurare un contatto lo Stato e pervenire all’eliminazione del “carcere duro” e del “pentitismo” erano tutte le stragi per cui è processo. Gli obiettivi di queste stragi furono principalmente cercati nel patrimonio artistico della Nazione".

Corte di Assise di Firenze, sentenza n. 3 del 6 giugno 1998 (motivazioni depositate il 21 luglio 1999) sulle stragi del 1993, poi divenuta irrevocabile.


"Dal racconto del Brusca emerge dunque che nella ricerca di nuovi canali di collegamento tra Cosa Nostra e politici […] il Riina aveva aperto una trattativa con personaggi, di cui non rivelò l’identità al Brusca, presentando loro un “papello” contenente sostanzialmente le richieste di cui si è già detto sopra. Di tale trattativa il collaborante era venuto a conoscenza intorno al giugno del 1992, a cavallo tra le due stragi, allorché il Riina gli aveva confidato che quei personaggi “si erano fatti sotto” e dopo una decina di giorni gli aveva detto che le richieste del sodalizio mafioso erano state respinte perché ritenute “troppo esose”. Era stata, quindi, eseguita la strage di via D’Amelio e poi ancora il Riina, dicendogli che “era necessario un altro colpetto” lo aveva indotto a proporre l’attentato a Piero Grasso, giudice a latere in primo grado del  maxiprocesso di Palermo, attentato poi non realizzato per difficoltà tecniche. A tali indicazioni avute dal Riina il Brusca ha poi aggiunto delle sue deduzioni, asserendo che quei personaggi di cui il Riina non gli aveva voluto rivelare l’identità – dandogli però ad intendere che si trattasse di personaggi delle Istituzioni, politici o magistrati – aveva poi compreso essere l’allora Colonnello Mori ed il Capitano De Donno. Lo inducevano a tale convincimento sia la coincidenza temporale dei contatti che questi ultimi avevano riferito di aver avuto con Ciancimino Vito, persona di cui il Brusca conosceva i rapporti con Riina e Provenzano, […] sia il fatto che i predetti Ufficiali di P.G. avevano ammesso di aver millantato coperture politiche per stabilire tali contatti con il Ciancimino.
[…] Occorre, pertanto, soffermarsi sull’altra ben più rilevante trattativa di cui ha riferito il Brusca e chiedersi in primo luogo se siano esatte le deduzioni del collaboratore circa l’identificazione del Mori e del De Donno con i personaggi ai quali il Riina avrebbe fatto pervenire il famoso “papello” di richieste.
[…] Pertanto, l’ipotesi che la trattativa di cui il Riina aveva parlato con il Brusca fosse la medesima che aveva visto il Mori ed il De Donno incontrarsi con il Ciancimino si fonda essenzialmente su una certa coincidenza temporale tra i due fatti, ed in particolare tra il momento in cui il Riina parlò al Brusca di “persone delle Istituzioni che si erano fatte sotto” e quello in cui il De Donno aveva preso contatti prima con il figlio del Ciancimino ed aveva poi incontrato a solo quest’ultimo.
[…] dovendocisi in proposito limitare a constatare che sussiste la possibilità che gli interlocutori di cui il Riina ebbe a parlare col Brusca fossero proprio Mori e De Donno e che in ogni caso, anche ad ammettere che fossero altri, vi era nello stesso periodo in cui Cosa Nostra attuava la strategia stragista una disponibilità della medesima a trattare con persone delle Istituzioni per ottenere quanto meno un’attenuazione dell’attività di contrasto alla mafia che in modo così efficace era stata avviata nel pur breve periodo in cui Giovanni Falcone aveva ricoperto l’incarico di Direttore Generale degli Affari Penali al Ministero.
[…] Se poi si considera che tale contrasto alla mafia non si limitava solo alla produzione di norme destinate a restare di fatto disapplicate ma si traduceva anche in un impegno sul piano concreto, come nel caso del sostegno fornito alla candidatura di Falcone per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia e dell’assegnazione del maxiprocesso a persona diversa dal Presidente Carnevale, appare evidente come Cosa Nostra dovesse particolarmente prodigarsi per mutare un andamento a lei così decisamente sfavorevole. E che tale tentativo  dell’organizzazione mafiosa di intavolare un dialogo con personaggi delle Istituzioni si sia tradotto quanto meno nell’incontro del Ciancimino con il Generale Mori ed il Capitano De Donno risulta con certezza comprovato dalle deposizioni di questi ultimi sull’atteggiamento tenuto dal loro interlocutore, anche se non era questo l’intento che essi avevano perseguito.
Le dichiarazioni del Brusca e quelle dei predetti Ufficiali di P.G., a prescindere quindi dall’identità o meno degli episodi riferiti, sono convergenti nel dimostrare che mentre attuava la strategia stragista Cosa Nostra cercava il dialogo con canali istituzionali ed in tale ottica appare verosimile il racconto del Brusca, secondo cui il succedersi degli “omicidi eccellenti” doveva servire anche a forzare la mano ai rappresentanti dello Stato, a costringerli cioè ad accettare un dialogo per interrompere una situazione divenuta per loro insostenibile perché rischiava di mostrarne l’incapacità ad assolvere ad una delle funzioni primarie di qualsiasi compagine governativa, il mantenimento dell’ordine pubblico. In tale situazione di emergenza l’apparato amministrativo dello Stato era, infatti,  di fronte ad un bivio, o trovare in se stesso la forza e la capacità di rispondere all’offensiva mafiosa assicurando alla giustizia i responsabili di crimini così efferati o piegarsi al dialogo con Cosa Nostra, barattando il pronto ristabilimento dell’ordine pubblico con la rinuncia a debellare il fenomeno mafioso. La scommessa del Riina, secondo quanto emerge dalle parole del Brusca, era quella che lo Stato non sarebbe riuscito nel primo intento e sarebbe stato quindi costretto prima o poi a raggiungere un accordo e su tale scommessa egli puntò tutto - spingendo l’offensiva criminale a livelli mai prima di allora raggiunti per accelerare la resa dello Stato - dando forza alle voci di coloro che dal suo interno si fossero mostrati disponibili al passaggio dall’atteggiamento di scontro a quello di dialogo.
[…] risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare - cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. […] E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa Nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche. E d’altronde proprio tale finalità di destabilizzazione fornisce una valida spiegazione del breve intervallo temporale, cinquantasei giorni, intercorso tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. In quel periodo, dopo la prima prevedibile reazione all’eccidio in cui avevano perso la vita dei nobili servitori dello Stato, reazione che aveva portato all’emanazione l’8 giugno 1992 di un decreto legge contenente nuove misure antimafia - che introduceva tra l’altro maggiori possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi ed ampliava le ipotesi di fermo di polizia - l’approvazione in Parlamento di quel decreto stava incontrando seri ostacoli da parte di un folto schieramento trasversale a tutte le forze politiche, che ne criticava le conseguenze eccessivamente pregiudizievoli per i diritti di difesa degli indagati per reati di mafia (tale decreto sarebbe stato approvato senza sostanziali modifiche solo l’8 agosto 1992, dopo l’ulteriore impressionante spargimento di sangue). La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa Nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione, ma l’evidenza dei fatti oggettivi conferma le dichiarazioni dei predetti collaboranti, secondo cui il sentimento prevalente in Cosa Nostra era quello per cui anche la situazione preesistente alla strage di Capaci era inaccettabile per l’organizzazione, che quindi, non doveva limitarsi ad evitare ulteriori inasprimenti ma doveva spingere la sua offensiva sino alle estreme conseguenze, non fermandosi sino a quando non avesse raggiunto il suo scopo,  la garanzia cioè che sarebbero state modificate tutte quelle norme che consentivano un più incisivo contrasto del fenomeno mafioso, anche se ciò avrebbe potuto comportare per un certo periodo “dei sacrifici”.
Tale conclusione in ordine all’unicità del disegno strategico che accomuna la strage di via D’Amelio a quella di Capaci ed agli omicidi Lima e Salvo costituisce, pertanto, un punto certo sul quale fondare le ulteriori ricerche in ordine ai tempi ed alle modalità di deliberazione della strage per cui è processo.
[...] Ma tornando adesso all'episodio del colloquio tra il Ganci ed il Riina appare a questo punto evidente la portata e la rilevanza delle perplessità manifestate dal primo e come non esse non fossero affatto incompatibili con le decisioni adottate nelle precedenti riunioni. Il Ganci, infatti, non intendeva affatto rimettere in discussione la strategia stragista che era stata deliberata, né tanto meno l'esecuzione dell'attentato a Borsellino, al quale già anni prima egli aveva preso parte con molti dei suoi uomini più fidati, bensì intendeva intervenire nell'ambito di quella discrezionalità che era stata riservata al Riina dai componenti della commissione provinciale per invitarlo a riflettere sull'opportunità di dilazionare quell'esecuzione. Appare evidente che un peso rilevante nell'indurre il Ganci a quella cautela doveva avere la consapevolezza del fatto che erano in corso di esame in Parlamento le misure antimafia adottate con decretazione d'urgenza dopo la strage di Capaci e la cui approvazione era ostacolata da diverse parti politiche con uno schieramento che era trasversale ai vari partiti. Per il Ganci l'esecuzione dell'attentato a Borsellino in quel momento avrebbe inevitabilmente comportato l'approvazione di quel decreto e ciò lo indusse a consigliare al Riina un differimento, ma quest'ultimo, pur avendo certamente preventivato quel rischio, riteneva - come hanno evidenziato tutti i predetti collaboratori - che se si voleva ottenere nel medio periodo un vantaggio per Cosa Nostra attraverso la strategia stragista non ci si poteva fermare di fronte al rischio di subire nel breve periodo un inasprimento delle misure antimafia, perchè tali esitazioni avrebbero reso meno temibile l'organizzazione, facendola apparire meno risoluta a non fermarsi di fronte a nulla e ne avrebbero, quindi, ridotto il peso contrattuale nella trattativa. Il Riina, inoltre, se non altro doveva già allora essere stato informato quanto meno delle "avances" che erano state fatte al Ciancimino dai predetti Ufficiali del R.O.S. e questo doveva averlo indotto a ritenere che alle loro spalle vi erano personaggi politici che dopo la strage di Capaci erano più disponibili ad un accordo che ad una reazione e voleva, quindi, prima di aprire la trattativa vera e propria, presentarsi a quel tavolo da una posizione di forza, mostrando una volta di più la potenza della propria organizzazione ed al contempo eliminando chi quella trattativa avrebbe potuto certamente ostacolare. La consapevolezza di quelle "avances" (di altre trattative non esiste, come si è detto, allo stato degli atti alcuna certezza) doveva indurre il Riina ad assumere di fronte alle perplessità del Ganci quella sicurezza che si è detta, mentre quest'ultimo, che non possedeva lo stesso grado di conoscenze, era anche per questo indotto a rimettersi alla valutazione del Riina dopo avergli esposto i suoi dubbi".      

Corte di Assise di Caltanissetta, sentenza n. 23 del 9 dicembre 1999 (motivazioni depositate il 9 marzo 2000) sulla strage di via D'Amelio (cosiddetto Borsellino-ter), poi divenuta irrevocabile.


"I quattro delitti del 1992 intervenuti tra marzo e settembre, l’omicidio Lima, le stragi di Capaci e via D’Amelio e l’omicidio Salvo furono infatti, e senza alcun dubbio, avvinti tra loro dalle intenzioni dei vertici di Cosa Nostra di frantumare le precedenti connivenze per crearne di nuove e sbaragliare i nemici più pericolosi per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione.
La pubblicazione della sentenza della Suprema Corte del 30 gennaio 1992 ed i suoi infausti esiti per le cosche segnarono poi, come più volte ribadito, il dies a quo di una strategia del terrore che doveva verosimilmente, nelle intenzioni dell’associazione criminale, fondare i presupposti di una contrattazione con le istituzioni repubblicane in posizione di assoluta preminenza.
[…] E’ emerso in primo luogo che la strage di via D’Amelio sia stata dettata da ragioni di urgenza tali da far sospendere i piani già elaborati ed in fase di esecuzione che prevedevano la eliminazione dell’On. Calogero Mannino e cui lo stesso Brusca si era dedicato, su espressa richiesta del Riina.
Dall’altro che nell’intervallo compreso tra la strage di Capaci e l’autunno del 1992, fu avviato un singolare contatto tra i vertici dei ROS rappresentati dal Gen. Mori e dal Cap. De Donno, e l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino, di cui erano note le contiguità mafiose […].
Tale ultimo aspetto ebbe modo di materializzarsi in alcuni incontri romani, solo il primo dei quali (avente natura del tutto preliminare e con il solo Cap. De Donno) precedente al 19 luglio,  secondo la versione del Gen. Mori […]                                           
Tale “trattativa” dai contorni anomali, spiegabile solo col clima di sbandamento evidenziato plasticamente dal Gen. Mori nel descrivere gli effetti della strage di Capaci (lo Stato era in ginocchio), proseguita dopo la strage secondo la successione degli incontri indicata dallo stesso Gen. Mori e definitivamente interrotta solo con l’arresto del Ciancimino nel dicembre successivo in esecuzione di pena detentiva definitivamente irrogatagli, non ebbe alcuno sbocco concreto anche perché diversi erano gli intenti perseguiti dagli interlocutori.
[…] Secondo il Brusca, il Riina aveva commentato l’atteggiamento degli interlocutori dicendo che “si erano fatti sotto” ed in conseguenza di ciò, aveva loro presentato “un papello” di richieste.
Tale “papello” invero, secondo la versione del Brusca, rifletteva essenzialmente le preoccupazioni del Riina per gli aspetti devastanti su Cosa Nostra derivanti dalla legislazione sui pentiti e dall’inasprimento del regime carcerario di recente introdotto, e prevedeva la richiesta di attenuazione dei provvedimenti cautelari, per taluni soggetti di vertice tra cui il Calò e lo stesso Brusca Bernardo.
[…] Sempre dalla parole del Brusca, ancora riscontrate dalla conferma avutasi dal gen. Mori, era emersa una seconda trattativa, cronologicamente incrociata con quella di cui si è appena detto, questa volta avente per oggetto la restituzione di talune opere d’arte sottratte da Cosa Nostra, sempre in cambio di benefici carcerari per alcuni esponenti di spicco dell’associazione criminosa, tra cui Brusca Bernardo e Calò Giuseppe il cui inserimento nella ‘lista’ dei beneficiari, era stato propugnato direttamente dal Riina. 
[...] Può pertanto ritenersi plausibile, ad avviso della Corte, che al Riina fosse giunta notizia della disponibilità alla trattativa, come si evince peraltro dal richiamo al presentato "papello"". 

Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, sentenza n. 1 del 7 febbraio 2002 (motivazioni depositate il 6 maggio 2002) sulla strage di via D'Amelio (cosiddetto Borsellino-ter), poi divenuta irrevocabile.

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Dunque la trattativa tra Stato e mafia non è "presunta", ma certa.
Ora, finchè a negare l'evidenza e la verità sono ipocriti doppiopesisti, depistatori di professione e opinionisti genuflessi al potere nulla di strano (elencarli tutti è impossibile perchè la lista sarebbe sempre incompleta).
Però se anche "Narcomafie" - mensile fondato da don Luigi Ciotti, edito dal Gruppo Abele e realizzato in collaborazione con Libera - si accoda alla suddetta maleodorante compagnia, sbattendo addirittura in copertina "la presunta trattativa Stato-mafia" (n. 9, settembre 2013), allora la situazione è molto più preoccupante del previsto.    
Tuttavia un rimedio c'è.
Quando sentite qualcuno accostare "trattativa Stato-mafia" alla parola "supposta", siate consapevoli del fatto che non sta usando né un aggettivo, né il participio passato del verbo "supporre".
Si tratta - è proprio il caso di dirlo - di un sostantivo.
E voi ne siete i destinatari.



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