domenica 26 ottobre 2014

PRESIDENTE, NON SI VERGOGNA
PROPRIO!

<<Non vedo>> 

Gentile Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (meglio noto come Re Giorgio),
è la terza volta che Le scrivo, dopo le mie lettere dell'8 marzo e del 1° ottobre scorsi.
Avrà certamente saputo che nell'udienza di due giorni fa del processo sulla trattativa Stato-mafia, la Corte d'Assise di Palermo - per bocca del suo Presidente Alfredo Montalto - ha pronunciato un'ordinanza, nella quale compaiono le seguenti parole:

"Nel caso della testimonianza del Presidente della Repubblica […] operano anche i limiti derivanti dalla pronuncia della Corte Costituzionale del 4 dicembre 2012 relativa alle attività anche informali del Capo dello Stato. Inoltre sia per l’assenza – ovviamente - di poteri coercitivi di sorta, sia per le prerogative costituzionali che in genere tutelano la persona che svolge la detta funzione, non può prescindersi di fatto dalla manifestazione di disponibilità del Presidente della Repubblica all'assunzione della sua testimonianza. Tale disponibilità può essere negata o concessa e – in quest’ultimo caso – può anche essere successivamente e  in qualunque momento revocata, e la Corte non potrà che prenderne atto. […] In conclusione, quindi, l’esame del Presidente della Repubblica - fatti salvi i limiti già più volte ricordati derivanti dalla sopra citata sentenza della Corte Costituzionale - potrà e dovrà procedere secondo le ordinarie regole che disciplinano la prova testimoniale, con le sole peculiarità - conseguenti alle prerogative costituzionali pure ricordate - connesse al luogo di assunzione della testimonianza ed alla connaturale facoltà del Presidente della Repubblica di  revocare in qualunque momento la disponibilità a testimoniare in atto comunicata alla Corte".

Ha capito?

Siccome è tutelato da prerogative costituzionali e non si può costringerLa a parlare, nè andarLa a prendere per condurLa forzatamente alla presenza della Corte, Lei può negare in qualunque momento la sua disponibilità a testimoniare e i giudici saranno costretti a prenderne atto.
E pazienza se:

a) i testimoni sono obbligati a "presentarsi al giudice" per "rispondere secondo verità alle domande" (art. 198, c. 1 c.p.p.);

b) essi commettono il reato di "falsa testimonianza" (art. 372 c.p. - reclusione da 2 a 6 anni), qualora si rifiutino di rispondere o tacciano - in tutto o in parte - ciò che sanno (del resto, anche l'art. 497, c. 2 c.p.p. ricorda che i testimoni reticenti sono penalmente responsabili); 

c) il giudice può ordinare l'accompagnamento coattivo dei testimoni che - senza un impedimento legittimo - non si presentino in udienza (art. 133, c. 1 c.p.p.).

Ma c'è di più.

Terminata la lettura dell'ordinanza, il Presidente Montalto "informa altresì le parti, in base a quanto comunicato dalla Presidenza della Repubblica, […] che non saranno ammessi nella sala destinata all'assunzione della testimonianza apparecchi cellulari, computer e - più un generale - strumenti di registrazione di quanto avviene nell'udienza. Ovviamente - come concordato anche in questo caso con la Presidenza della Repubblica - invece sarà attuata l’ordinaria audio-registrazione dell’udienza, come avviene in tutte le nostre udienze e quindi poi si seguirà l’ordinario procedimento per quanto riguarda le attività consequenziali".

Ma quali strabilianti e fantasmagorici poteri ha, signor Presidente? 
Adesso capisco perchè la chiamano "Re Giorgio"...
Cioè, siccome Lei non vuole avere tra i piedi i giornalisti - ovvero coloro i quali utilizzano nello svolgimento del proprio lavoro cellulari, computer e strumenti di registrazione - la Corte si adegua ai suoi voleri regali (anche se l'audio della sua testimonianza verrà registrato). 
Eppure 9 giorni prima, il 15 ottobre 2014, lo stesso Presidente Montalto aveva ribadito "l'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del processo", sottolineando che "l'esame testimoniale in questione [ovvero il suo, N.d.A.] è atto non destinato alla secretazione"Pertanto "nulla osta [...] alla chiesta realizzazione di un collegamento video e/o audio tra la sala nella quale sarà assunta la testimonianza ed una postazione esterna riservata alla stampa".
Ma ecco la formula magica: "fatte salve le determinazioni rimesse alla Presidenza della Repubblica".
Ergo, l'ultima parola spettava a Lei, soltanto a Lei.

<<Non sento>>

Non che le sue numerose precedenti prove di intrepido coraggio (perchè per dire o non dire, fare o non fare certe cose bisogna avere veramente un bel coraggio...) siano state da meno, ma stavolta deve averla davvero combinata grossa se il suo "divieto d'accesso" ha persino provocato la reazione dei cronisti nostrani. 
Infatti, nella tarda serata di venerdì 24 ottobre, il presidente dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti (Enzo Iacopino) e il presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia (Riccardo Arena) hanno reso di dominio pubblico un comunicato congiunto, nel quale "prendono atto con notevole perplessità della decisione – peraltro non comunicata espressamente, con note ufficiali – della Presidenza della Repubblica di non consentire né l’ingresso dei giornalisti al Quirinale, né di realizzare un collegamento in video o in audio con una sala anche esterna al palazzo, così come era stato chiesto per assicurare un’informazione completa riguardo all’udienza del 28 ottobre del processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Pur nel massimo rispetto dell’alta istituzione e della persona di Giorgio Napolitano, Iacopino e Arena osservano che anche la Corte d’assise aveva dato il proprio nulla osta ai cronisti, in considerazione del fatto che l’udienza in sé non è segreta [ma sarà senza pubblico, N.d.A.]. L’impossibilità di raccontare <<senza filtri>> l’audizione del Capo dello Stato su temi così delicati rappresenta ora un notevole vulnus alla libertà di stampa e al diritto di tutti di conoscere che cosa realmente avverrà di fronte ai giudici, creando pericolosi ostacoli nel rispetto della verità sostanziale dei fatti e rendendo concreta la possibilità che, volontariamente o involontariamente, la testimonianza del presidente sia oggetto di manipolazioni o fraintendimenti. I presidenti dell’Ordine nazionale e regionale avevano sollecitato un’apertura da parte del Colle, proprio per prevenire questi rischi, a tutela dei diritti dei cittadini e dello stesso presidente della Repubblica. Adesso si augurano che nessuno invochi la mancanza di professionalità dei giornalisti, se qualcuno di questi pericoli si tradurrà in realtà".

Ma si rende conto?

I giornalisti italiani (non proprio dei cani da guardia del potere, semmai da compagnia) se la sono giustamente presa con una sua decisione occulta ("non comunicata espressamente, con note ufficiali") che - a loro avviso - sortirà almeno cinque effetti dannosi per i cittadini:

1) essi non potranno disporre di "un'informazione completa";

2) dovranno accontentarsi di un racconto dei fatti filtrato e non diretto;

3) verrà pregiudicato (no, non si preoccupi, non mi riferisco alla persona che ogni tanto riceve al Quirinale) il loro diritto fondamentale di ricevere informazioni da una stampa libera;

4) verrà pregiudicato (no, Le ho appena detto che non sto parlando del frodatore fiscale che Lei tiene così tanto in considerazione) il fondamentale "diritto di tutti di conoscere" la sua deposizione "su temi così delicati";

5) sarà pericolosamente ostacolata la "verità sostanziale dei fatti".

Qualora se ne sia dimenticato - data anche la sua veneranda età - Le rammento che la Costituzione della Repubblica italiana - e non quella della Monarchia Napolitana - sancisce che "la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure" (art. 21, c. 2) e che "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore" (art. 54, c. 2).

Se lo ricorda, vero?

<<Non parlo>>

Poichè presumo di no (ma da dove mi deriverà mai questo dubbio amletico?), La esorto a leggere un paio di articoli de "il Fatto Quotidiano", che so essere una delle sue letture predilette in certi momenti della giornata (sa, quando la natura chiama...).

Il primo - intitolato "Trattativa, Colle a porte chiuse. Sì alle domande di Riina", a firma dei giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza - è stato pubblicato nell'edizione di ieri e contiene le seguenti considerazioni:

"Ricerca [della verità, N.d.A.] a cui le domande poste al capo dello Stato potranno dare un contributo, ma che rischiano di restare nel chiuso delle stanze del Colle: finora il Quirinale ha pensato a <<blindare ulteriormente>> l'udienza di martedì 28 ottobre con una lettera alla Corte di assise nella quale rende noto il divieto di utilizzare al Quirinale telecamere, pc, cellulari. Nessun accenno ai giornalisti anche se gli strumenti citati sono proprio i mezzi di lavoro dei cronisti, che ad oggi non sanno ancora se e come potranno assistere all'udienza quirinalizia. Sembra infatti tramontata l'ipotesi di allestire una saletta nella Prefettura di Palermo collegata con l'udienza in video conferenza, e nessuna comunicazione finora è stata fornita alla stampa. Ad oggi, dunque, la prima udienza in cui un presidente della Repubblica viene sentito come teste rischia di essere celebrata a porte chiuse, con i funzionari quirinalizi che trascrivono l'udienza per poi consegnare il verbale al presidente della Corte. È uno scenario possibile in assenza di una indicazione chiara che ancora non proviene né dal Quirinale né dalla Corte d’assise. L'unico segnale, di una settimana fa circa, è un buffetto affettuoso del presidente Montalto a uno dei cronisti presenti nel palazzo di Giustizia e una frase augurante: <<Sto pensando anche a voi>>. Come, però ancora non viene detto e a oggi, i cronisti non sanno né se potranno entrare al Quirinale né se una volta dentro, potranno accedere alla sala trasformata in un'aula di udienza".

Il secondo "pezzo" appartiene all'edizione odierna del quotidiano diretto da Antonio Padellaro e consiste in un'intervista a Philip Willan, corrispondente da Roma per "The Times", "Sunday Herald" e "IDG News Service". Il giornalista britannico spiega:
  
"Davvero credono che nascondendo la deposizione si possa tutelare la dignità del capo dello Stato? [...] Ci sono due principi in contrasto: da una parte la dignità del capo dello Stato, che Napolitano teme di vedere lesa. Ma ce n’è un altro più importante: la giustizia è uguale per tutti, e questo è il principio che dovrebbe prevalere. Poi c’è l’oggetto del processo: la trattativa tra lo Stato e la mafia. Ecco, considerando questo scenario, il sospetto che sia avvenuto qualcosa di non solo illegale, ma anche di vergognoso, è viva. […] Napolitano è un rappresentante politico di lunghissima data: se si avvalesse del diritto di non rispondere, confermerebbe l’impressione che c’è qualcosa di molto imbarazzante da nascondere. La stampa serve a questo: ad aiutare l’opinione pubblica a farsi un’idea su un passaggio cruciale della storia del Paese. [Nel Regno Unito non sarebbe ipotizzabile una misura del genere, N.d.A.], gli unici casi di processi a porte chiuse sono quelli che riguardano la sicurezza dello Stato o quelli di minori vittime di abusi. Ma in entrambi i casi, lo si fa solo per tutelare l’incolumità dei testimoni, quindi non c’entra nulla. E, comunque, anche in questi casi la stampa ha protestato perché il controllo dei mezzi di informazione serve a scongiurare il rischio di decisioni arbitrarie e prese in segreto. […] Credo però che per la salute della democrazia italiana debba prevalere il principio di uguaglianza davanti alla legge. Vede, più vengono invocati dei privilegi a tutela della dignità istituzionale, più quella dignità viene meno, perché diventa poi legittimo chiedersi cosa si cerca di nascondere. Tutto questo non è rassicurante per la democrazia. […] a Washington sarebbe impensabile per un presidente una deposizione a porte chiuse, non importa quale sia il segreto militare o storico da tutelare. […] In Italia ci sono troppi misteri che aleggiano sulla democrazia. E i misteri portano a ricatti, che condizionano i protagonisti della vita pubblica e politica del Paese. Questa vicenda rientra nello stesso filone: quello in cui lo Stato si comporta in modo ambiguo e cinico. Anzi, criminale".

Ha letto, signor Presidente, come si comportano i Paesi civili e democratici (e non quelli barbari e napolitanocratici, come il nostro)?
"Si sta diffondendo, io credo, in Italia, un senso di insofferenza per il trascinarsi di vecchi assetti strutturali e di potere" (dal suo intervento alla cerimonia di consegna delle insegne di Cavaliere dell'Ordine "Al Merito del Lavoro", Palazzo del Quirinale, 23 ottobre 2014).
E' davvero sicuro che mentre proferiva tale perla di saggezza non si stava guardando allo specchio? 
Si ricorda che Lei tra otto mesi compirà 90 anni e che è stato eletto per la prima volta in Parlamento nel lontano 1953, vero?

Non si vergogna proprio, signor Presidente della Repubblica!


In ogni caso, per concludere questa mia lettera, vorrei - se me lo consente; e se non me lo consente lo faccio lo stesso - confidarLe il modo in cui, a mio avviso, Lei si sarebbe dovuto comportare:

<<I magistrati hanno intercettato alcune mie conversazioni telefoniche acquisite all'interno di un procedimento penale che riguarda la trattativa intercorsa tra lo Stato italiano e Cosa Nostra nei primi anni '90?  
Benissimo, io non ho nulla da nascondere, anzi.
Non solo la loro pubblicazione non mi arreca alcun danno, ma ho tutto l'interesse che siano note all'opinione pubblica, così da poter dimostrare - nero su bianco - che incoraggio e sostengo personalmente la lotta ai mafiosi e ai loro potenti amichetti.  
D'altra parte, io, le mafie, le combatto strenuamente e senza sosta da più di sessant'anni, da quando cioè sono diventato Onorevole. 
Ma per chi mi avete preso? Per un occultatore? 
Come dite?
Sono anche chiamato a testimoniare di fronte a quel tribunale della Repubblica che sta procedendo per fare completa luce su eventi tragici e infami della nostra storia recente?
Non c'è problema. 
Premetto che mi sarebbe molto piaciuto presentarmi spontaneamente in Procura tanti anni fa, ma sapete com'è, già all'epoca non ero più il giovane di un tempo. 
Comunque ora corro immediatamente dai giudici nonostante i miei numerosi acciacchi, perchè - anche se il primo comma dell'articolo 205 c.p.p. prevede che la mia testimonianza venga assunta al Palazzo del Quirinale - voglio dimostrare, con la mia presenza a Palermo, che la massima carica dello Stato è al fianco di quei pubblici ministeri reiteratamente minacciati di morte (e non solo dai mafiosi).
Chiedo infine che possano assistere alla mia deposizione in aula non solo i giornalisti, ma anche le associazioni e i cittadini a cui - come me - sta a cuore la legalità, la verità e la trasparenza.
Come ho già ribadito, non devo nascondere niente a nessuno.
Io sono il Presidente, non il Reticente, della Repubblica. Ricordatevelo! 
Non immaginate nemmeno quanto sia felice e orgoglioso di portare il mio contributo di verità per rendere finalmente vera giustizia a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e a tutti coloro i quali si siano immolati per lo Stato, quello vero!!!   
Finalmente i miei detrattori capiranno, una volta per tutte, che si sbagliano, che non sono un monarca intoccabile e inascoltabile, ma un semplice servitore delle Istituzioni>>.

Buona testimonianza, signor Presidente!

Sempre non devotamente suo,

Danilo Rota


P.S. Non so se lo ha saputo, ma "il Presidente Giorgio Napolitano ha sottolineato in più occasioni che il Quirinale è la casa degli italiani. Da anni il Palazzo è aperto al pubblico quasi ogni domenica [...] e in altri giorni è accessibile alle scolaresche per visite programmate. Adesso di questa casa i cittadini d'Italia e del mondo hanno le chiavi, in ogni momento e dovunque si trovino, anche gli utenti della rete" ("Annuncio della nuova visita virtuale del Palazzo del Quirinale", 31 maggio 2014). 
Un suggerimento: prima di far redigere e diffondere dai suoi dipendenti un simile comunicato, sarebbe utile informarli del cambio di proprietà. 
Non più pubblica (cioè degli italiani), ma privata (cioè sua).
Come si dice: quando un Re chiude una porta (ai cittadini e ai giornalisti), apre un portone (ai ladri).


sabato 25 ottobre 2014

C'ERA UNA VOLTA...

Oggi voglio raccontarvi una storia.

C'era una volta una ragazza siciliana.
Cosa Nostra uccise prima il padre mafioso (Vito), poi il fratello mafioso (Nicola), infine il "secondo padre" (Paolo Borsellino), al quale aveva deciso di riferire tutti i crimini di cui era stata incolpevole testimone.
Una settimana dopo la strage di via D'Amelio, si suicidò, lanciandosi nel vuoto dal proprio appartamento al 7° piano di un palazzo di Roma.
Non riusciva a sopportare la perdita di un "uomo coraggioso dal quale ho imparato tante cose: la prima che nella vita non ci si deve inchinare alla prepotenza" e "che raccontare la verità aiuta a rimanere sereni e a posto con la propria coscienza" (da una lettera che lei stessa aveva scritto a Borsellino).
Scelse di vedere, di sentire e di parlare.
Si chiamava Rita Atria.
Al momento del suicidio aveva 17 anni, quasi 18.


C'era una volta una ragazza calabrese.
La 'ndrangheta uccise prima il padre mafioso (Antonio), poi lo zio mafioso (Giulio), infine il fratello mafioso (Floriano). 
Si innamorò di un diciassettenne (Carlo Cosco) e rimase incinta.
Si chiamava Lea Garofalo. 
Al momento del parto aveva 17 anni, quasi 18.


C'era una volta una ragazza calabrese.
E' la figlia di Lea Garofalo.
La madre decise di esporre alla magistratura e alle forze dell'ordine tutti i crimini mafiosi di cui era stata incolpevole testimone, compresi quelli commessi dal compagno.
Voleva così garantire a se stessa e alla figlia un futuro diverso, una vita migliore.
Per questo venne sequestrata, interrogata per sapere ciò che aveva detto agli uomini dello Stato, massacrata di botte, strangolata, rovesciata in un fusto pieno di benzina, bruciata e buttata in un tombino.
Come fosse spazzatura.
Nonostante il padre mafioso Carlo Cosco e i suoi scagnozzi le avessero portato via la persona più importante della sua vita, la ragazza riuscì a farsi forza e con il cuore ancora sanguinante, ma ravvivato dall'esempio materno, si convinse a rivelare tutto quello che sapeva.
Parlò con i magistrati e con i carabinieri.
Testimoniò di fronte alla Corte d'Assise di Milano nel processo per l'omicidio di Lea.
Sul banco degli imputati sedevano sei uomini, tra i quali suo padre (Carlo Cosco), due suoi zii (Vito Cosco e Giuseppe Cosco) e due suoi cugini (Rosario Curcio e Carmine Venturino, al quale era stata sentimentalmente legata).
Secondo i giudici di 1° grado, la sua deposizione "è assai preziosa, [...] è il teste chiave e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentali per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori". Esse "forniscono un racconto estremamente ampio, articolato, che abbraccia una molteplicità di temi ed episodi percorrendo quindici anni di vita".
Insomma, la coraggiosissima ragazza fu assolutamente determinante perchè fosse fatta giustizia: 6 ergastoli in 1° grado, commutati dalla Corte d'Assise d'Appello in 4 ergastoli, 1 condanna a 25 anni di reclusione (Carmine Venturino) e 1 assoluzione per insufficienza di prove (Giuseppe Cosco. Tuttavia i giudici milanesi di 2° grado vollero precisare non solo che "gli elementi emersi a suo carico" non consentivano "di affermare la sua assoluta estraneità ai fatti", ma che i "suoi trascorsi penali e giudiziari" lo collocavano "sicuramente" all'interno di "contesti criminali").
Come Lea, anche la figlia scelse di vedere, di sentire e di parlare.
Si chiama Denise.
Al momento dell'assassinio della madre aveva 17 anni, quasi 18.


Pur costrette a vivere in un contesto familiare e ambientale dove sopraffazioni, omicidi, ricatti e violenze rappresentano la quotidianità, queste tre ragazze, queste tre donne, non ne condivisero mai i disvalori.
Anzi, denunciarono alle autorità competenti i delitti che avevano visto o di cui erano venute a conoscenza, perchè compresero che quello era il solo modo per poter finalmente ottenere la libertà tanto sognata.
Le loro storie di vita sono accomunate dall'aver voluto dare significato e dignità a una parola tanto preziosa, quanto ignorata: TESTIMONIANZA.
Essa trova il suo massimo splendore nella lettera aperta rivolta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (chiedo scusa alle signore per la parola "Napolitano") che Lea Garofalo scrisse e inviò ad alcuni giornali nazionali nell'aprile 2009, pochi mesi prima di essere barbaramente uccisa (la missiva - chissà perchè - sarebbe stata pubblicata solo il 2 dicembre 2010 da "il Quotidiano della Calabria", quando ormai la sua autrice non c'era più):

"Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto, lei rispondesse alle decine, se non centinaia di persone oltre a me che oggi si trovano nella mia stessa situazione. Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiano mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo e ad aver saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza. Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può, nonostante tutto! La prego signor presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello".

Ecco, avendo fatto di tutto per occultare all'opinione pubblica il contenuto delle proprie telefonate con Nicola Mancino (e purtroppo gli è andata bene) e per non rendere TESTIMONIANZA al processo in corso a Palermo sulla trattativa Stato-mafia (e per fortuna gli è andata male), Giorgio Napolitano (chiedo di nuovo perdono alle signore per la parola "Napolitano") ha sì lanciato un segnale, forte e chiaro.
Ma non di speranza.
Di qualcosa che puzza molto di omertà.

E vissero tutti (in)felici e (s)contenti. 


P.S. C'era una volta un ragazzo campano.
All'università faceva parte del Guf, Gruppo Universitario Fascista.
Si chiama Giorgio Napolitano (chiedo scusa - ormai in ginocchio - alle signore per la parola "Napolitano"). 
Al momento della sua militanza nel fascismo, aveva 17 anni, quasi 18.

Giorgio Napolitano: <<Uhm...che faccio? Parlo o non parlo? No, dai, stavolta no!>>

domenica 19 ottobre 2014

SUPPOSTA (E) TRATTATIVA


"L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra, in maniera indiscutibile, che nella seconda metà del 1992 vi fu un “contatto” tra il ROS dei Carabinieri e i capi di “cosa nostra”, attraverso Vito Ciancimino. I termini personali e temporali di questo “contatto” sono praticamente certi, essendo stati narrati da due testi qualificati, come il generale Mori e il capitano De Donno. Essi hanno chiarito che iniziò nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, e si protrasse fino al 18-10-92, giorno in cui, dovendo “stringere” il discorso, divenne chiaro che i due interlocutori istituzionali non avevano nulla da offrire alla controparte. Continuò poi fino al 19-12-93 nella prospettiva di giungere all’arresto di Riina. Per comprendere questa vicenda, quindi, non è necessario, se non marginalmente, fare riferimento a ciò che dicono i collaboratori, in quanto nelle parole dei due testi sopra indicati vi è tutto quello che occorre per farsi un’idea dell’accaduto. 
[…] Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di “trattativa”, “dialogo”, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di “cosa nostra” per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi).
Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.
Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca. Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare. Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva “prenderla” da nessuno […]. Eppure, egli ne parlò in termini assolutamente convergenti (e speculari) con quelli introdotti dai due testi di Polizia Giudiziaria sopra esaminati. Infatti, confrontando il racconto di Brusca e quello di Mori e De Donno balza evidente che parlano della stessa cosa: uomini, tempi, oggetto tornano con assoluta precisione; o almeno, tornano in maniera tale da escludere che testi e collaboratore parlino di cose diverse. 
Questo vale, innanzitutto, per gli uomini: i testi hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i “corleonesi”; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina.
Vale per i tempi: i testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio; la richiesta di accreditamento fu fatta da Ciancimino l’1-10-92; l’interruzione della trattativa avvenne il 18-10-92. Brusca ha reso dichiarazioni assolutamente speculari [...]. Sta di fatto che, in ciò che ha raccontato Brusca, vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno.
Vale anche per l’oggetto. I testi non hanno fatto alcun riferimento alle richieste avanzate da “cosa nostra” per porre fine alle stragi; anzi, hanno espressamente escluso di aver mai sentito parlare di “papello”. Brusca, dal canto suo, ha dichiarato di aver appreso da Riina di richieste condensate in un lungo “papello”. Personalmente, senza aver ricevuto spiegazioni di sorta, comprese che Riina si riferiva agli istituti giuridici che più angustiavano “cosa nostra” in quel periodo: il 41/bis, la legge sui collaboratori, la riapertura dei processi, ecc. Non è inutile dire che questa diversità di racconto può avere varie spiegazioni […]Nell’un caso e nell’altro non autorizzano alcuna conclusione negativa su Brusca. Per converso, v’è da rimarcare come le indicazioni di Brusca siano perfettamente congruenti con quanto detto dai testi circa lo scopo dichiarato del contatto: avviare una trattativa per porre fine alle stragi.
E’ ovvio che la trattativa presuppone un do ut des: Riina offriva la fine delle stragi per avere soddisfazione sui punti che […] maggiormente lo angustiavano. Anche in questo caso la convergenza (solo logica questa volta, ma non meno significativa) tra testi e collaboratore è completa.
Tutto ciò induce allora a ritenere che Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare ai suoi accoliti) che “quelli si erano fatti sotto”Lo indusse, cioè, a ritenere che le stragi di Capaci e via D’Amelio, da poco avvenute, avevano completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti dell’invincibilità di “cosa nostra”; li avevano indotti a rinunciare all’idea del “muro contro muro” ed a fare sostanziali concessioni all’organizzazione criminale cui apparteneva. Nel frattempo, diede il “fermo” alle iniziative in programma […].
Questo convincimento rappresenta la conclusione più “ragionevole” dell’iniziativa del ROS, a cui si potrebbe pervenire anche in assenza di collaboratori che ne facciano menzione. Il fatto che sia stato riferito da Brusca illo tempore (cioè, prima che la vicenda divenisse pubblica) costituisce sicuramente un segno sia della bontà del ragionamento, sia della sincerità del collaboratore.
Questo convincimento rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento, che, nonostante le più buone intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.
Prova ne sia che, appena i “corleonesi” intravidero difficoltà nella conclusione della trattativa (cioè, nella soddisfazione delle loro pretese) pensarono ad un’altra strage per “stuzzicare” la controparte: uccidere il dr. Grasso e coloro che gli stavano intorno. Di questo progetto criminale ha parlato […] Brusca, il quale ha indicato tempi, modalità e motivazione di questo ennesimo delitto. La verità di ciò che dice si apprezza già solo considerando i tempi in cui, a suo dire, quest’assassinio doveva essere commesso (ha parlato, infatti, di settembre-ottobre del 1992 come dell’epoca in cui ricevette l’incarico da Biondino; epoca che, come si è visto, è proprio corrispondente a quella in cui, secondo il gen. Mori, avvenne l’interruzione della trattativa). Ma si apprezza altresì considerando che non è il solo che parla di questo progetto criminale. Anche La Barbera, infatti, sapeva che nel 1992 era in programma quest’attentato e che s’inseriva nel quadro delle azioni volte a dimostrare “chi comanda qua in Italia”Ganci Calogero, dal canto suo, sapeva che, qualche mese dopo l’arresto di Riina, Provenzano “voleva mettere una bomba per uccidere il dottor Grasso”. Segno, evidentemente, che il progetto, maturato prima dell’arresto di Riina, aveva attraversato quest’evento per connotare (anche) la stagione di morte del periodo successivo. Il convincimento che indusse i corleonesi a mettere gli occhi sul dr. Grasso non venne meno, quindi, con l’arresto di Riina, sia perché questi (sebbene impedito nei movimenti) non uscì certamente di scena con l’arresto, sia perché non era un convincimento a lui esclusivo (si è visto che della trattativa, come delle iniziative che dovevano secondarla, sapevano, quantomeno, Brusca e Biondino; nonché, come si vedrà, Bagarella). Quel convincimento, giova sottolineare e specificare, riguardava la bontà di un metodo: il metodo dell’assalto verso chi mancava del cuore per difendersi (per difendere, in realtà, i suoi cittadini e il suo patrimonio). Esso, unito all’attenzione che, contestualmente, stava maturando verso il patrimonio artistico nazionale, costituirà il presupposto della stagione di fuoco che, di lì a poco, si aprirà. 
Si deve dire, quindi, che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi, giacché metodo ed oggetto, così come le finalità, erano già presenti, con sufficiente precisione, alla mente di coloro che muovevano le fila di “cosa nostra”. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela esplosiva già pronta e confezionata.    
[…] Si è già visto che tutta la parte delle sue [di Brusca, N.d.A.] dichiarazioni concernente […] la trattativa tra Gioè e Bellini, nonché la trattativa tra il ROS e Ciancimino, è stata espressamente confermata dai testimoni che vissero dall’interno queste vicende.
[…] Sempre dai collaboratori (ma non solo da loro) è stato reso noto lo strumento di cui i capi mafiosi intendevano servirsi per raggiungere i loro fini. Questo strumento era la “trattativa”.
Anche in questo caso sono molti coloro che ne parlano, e tutti in maniera non equivoca. Infatti:

per Brusca: “…si vuole continuare in questa strategia perché si cerca di riportare lo Stato a trattare con noi, cioè con la mafia per potere usufruire sempre di quei benefici per avere una trattativa per riscendere a patti e per avere, ripeto, sempre qualche beneficio”.

La Barbera ha così espresso la finalità degli attentati: “…di fargli capire che Cosa Nostra c'ha i suoi metodi per potere scendere a patti con queste persone”.

Per Sinacori: “…solo con le bombe nel patrimonio artistico potevamo cercare un contatto con qualche politico, con qualcuno delle Istituzioni che poteva venirci a dire qualcosa: 'perché non la smettete?', questo discorso”.

Per Geraci (che riporta quanto gli domandò Matteo Messina Denaro): “…tu non credi che, facendo questi attentati, qualcuno non si interessi che vada a trovare Riina per scendere a un compromesso? Ecco, questo”.

Di Filippo Pasquale: “Quindi il motivo di queste stragi è stato un ricatto verso lo Stato. Praticamente: 'o togli Pianosa, Asinara e 41-bis, o noi ti facciamo saltare i monumenti'”.

Calvaruso (riferito a Bagarella): “Aveva paura, una paura tremenda di questo fenomeno collaboratori, e quindi cercava di mettersi a patto con lo Stato per farlo regredire proprio nei confronti, sui confronti dei collaboratori”.

Cosentino Antonino: “Gli attacchi dovevano servire a mettere in ginocchio lo Stato, affinché scendesse a patti con cosa nostra”.

[…] Nella valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori suddetti va poi tenuto conto del fatto […] che le dichiarazioni di costoro hanno ricevuto, in tema di causale o di aspetti che lambiscono la causale, significativi riscontri esterni su alcuni punti verificabili del loro racconto.
Ciò vale per […] la “trattativa del papello”, che è stata consegnata a questa Corte, direttamente, dagli ufficiali del ROS, e non da Brusca.
[…] lo scopo immediato delle stragi era quello di instaurare una trattativa con lo Stato (per la qualcosa occorreva un interlocutore riconoscibile). Va considerato, infatti, che gli interlocutori istituzionali non erano, per i mafiosi impegnati nella campagna stragista, né l’opinione pubblica né gli investigatori. Erano, invece, frange particolari dell’apparato statuale, con cui erano in contatto o che ritenevano di poter contattare. Per costoro la matrice mafiosa di tutti questi attentati sarebbe stata ben comprensibile o facile da comprendere (o da far comprendere). Il depistaggio era pensato per gli investigatori e per l’opinione pubblica, di cui temevano la reazione. Deve dirsi, quindi, che le stragi di cui i dirigenti mafiosi intendevano servirsi per instaurare un contatto lo Stato e pervenire all’eliminazione del “carcere duro” e del “pentitismo” erano tutte le stragi per cui è processo. Gli obiettivi di queste stragi furono principalmente cercati nel patrimonio artistico della Nazione".

Corte di Assise di Firenze, sentenza n. 3 del 6 giugno 1998 (motivazioni depositate il 21 luglio 1999) sulle stragi del 1993, poi divenuta irrevocabile.


"Dal racconto del Brusca emerge dunque che nella ricerca di nuovi canali di collegamento tra Cosa Nostra e politici […] il Riina aveva aperto una trattativa con personaggi, di cui non rivelò l’identità al Brusca, presentando loro un “papello” contenente sostanzialmente le richieste di cui si è già detto sopra. Di tale trattativa il collaborante era venuto a conoscenza intorno al giugno del 1992, a cavallo tra le due stragi, allorché il Riina gli aveva confidato che quei personaggi “si erano fatti sotto” e dopo una decina di giorni gli aveva detto che le richieste del sodalizio mafioso erano state respinte perché ritenute “troppo esose”. Era stata, quindi, eseguita la strage di via D’Amelio e poi ancora il Riina, dicendogli che “era necessario un altro colpetto” lo aveva indotto a proporre l’attentato a Piero Grasso, giudice a latere in primo grado del  maxiprocesso di Palermo, attentato poi non realizzato per difficoltà tecniche. A tali indicazioni avute dal Riina il Brusca ha poi aggiunto delle sue deduzioni, asserendo che quei personaggi di cui il Riina non gli aveva voluto rivelare l’identità – dandogli però ad intendere che si trattasse di personaggi delle Istituzioni, politici o magistrati – aveva poi compreso essere l’allora Colonnello Mori ed il Capitano De Donno. Lo inducevano a tale convincimento sia la coincidenza temporale dei contatti che questi ultimi avevano riferito di aver avuto con Ciancimino Vito, persona di cui il Brusca conosceva i rapporti con Riina e Provenzano, […] sia il fatto che i predetti Ufficiali di P.G. avevano ammesso di aver millantato coperture politiche per stabilire tali contatti con il Ciancimino.
[…] Occorre, pertanto, soffermarsi sull’altra ben più rilevante trattativa di cui ha riferito il Brusca e chiedersi in primo luogo se siano esatte le deduzioni del collaboratore circa l’identificazione del Mori e del De Donno con i personaggi ai quali il Riina avrebbe fatto pervenire il famoso “papello” di richieste.
[…] Pertanto, l’ipotesi che la trattativa di cui il Riina aveva parlato con il Brusca fosse la medesima che aveva visto il Mori ed il De Donno incontrarsi con il Ciancimino si fonda essenzialmente su una certa coincidenza temporale tra i due fatti, ed in particolare tra il momento in cui il Riina parlò al Brusca di “persone delle Istituzioni che si erano fatte sotto” e quello in cui il De Donno aveva preso contatti prima con il figlio del Ciancimino ed aveva poi incontrato a solo quest’ultimo.
[…] dovendocisi in proposito limitare a constatare che sussiste la possibilità che gli interlocutori di cui il Riina ebbe a parlare col Brusca fossero proprio Mori e De Donno e che in ogni caso, anche ad ammettere che fossero altri, vi era nello stesso periodo in cui Cosa Nostra attuava la strategia stragista una disponibilità della medesima a trattare con persone delle Istituzioni per ottenere quanto meno un’attenuazione dell’attività di contrasto alla mafia che in modo così efficace era stata avviata nel pur breve periodo in cui Giovanni Falcone aveva ricoperto l’incarico di Direttore Generale degli Affari Penali al Ministero.
[…] Se poi si considera che tale contrasto alla mafia non si limitava solo alla produzione di norme destinate a restare di fatto disapplicate ma si traduceva anche in un impegno sul piano concreto, come nel caso del sostegno fornito alla candidatura di Falcone per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia e dell’assegnazione del maxiprocesso a persona diversa dal Presidente Carnevale, appare evidente come Cosa Nostra dovesse particolarmente prodigarsi per mutare un andamento a lei così decisamente sfavorevole. E che tale tentativo  dell’organizzazione mafiosa di intavolare un dialogo con personaggi delle Istituzioni si sia tradotto quanto meno nell’incontro del Ciancimino con il Generale Mori ed il Capitano De Donno risulta con certezza comprovato dalle deposizioni di questi ultimi sull’atteggiamento tenuto dal loro interlocutore, anche se non era questo l’intento che essi avevano perseguito.
Le dichiarazioni del Brusca e quelle dei predetti Ufficiali di P.G., a prescindere quindi dall’identità o meno degli episodi riferiti, sono convergenti nel dimostrare che mentre attuava la strategia stragista Cosa Nostra cercava il dialogo con canali istituzionali ed in tale ottica appare verosimile il racconto del Brusca, secondo cui il succedersi degli “omicidi eccellenti” doveva servire anche a forzare la mano ai rappresentanti dello Stato, a costringerli cioè ad accettare un dialogo per interrompere una situazione divenuta per loro insostenibile perché rischiava di mostrarne l’incapacità ad assolvere ad una delle funzioni primarie di qualsiasi compagine governativa, il mantenimento dell’ordine pubblico. In tale situazione di emergenza l’apparato amministrativo dello Stato era, infatti,  di fronte ad un bivio, o trovare in se stesso la forza e la capacità di rispondere all’offensiva mafiosa assicurando alla giustizia i responsabili di crimini così efferati o piegarsi al dialogo con Cosa Nostra, barattando il pronto ristabilimento dell’ordine pubblico con la rinuncia a debellare il fenomeno mafioso. La scommessa del Riina, secondo quanto emerge dalle parole del Brusca, era quella che lo Stato non sarebbe riuscito nel primo intento e sarebbe stato quindi costretto prima o poi a raggiungere un accordo e su tale scommessa egli puntò tutto - spingendo l’offensiva criminale a livelli mai prima di allora raggiunti per accelerare la resa dello Stato - dando forza alle voci di coloro che dal suo interno si fossero mostrati disponibili al passaggio dall’atteggiamento di scontro a quello di dialogo.
[…] risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare - cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. […] E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa Nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche. E d’altronde proprio tale finalità di destabilizzazione fornisce una valida spiegazione del breve intervallo temporale, cinquantasei giorni, intercorso tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. In quel periodo, dopo la prima prevedibile reazione all’eccidio in cui avevano perso la vita dei nobili servitori dello Stato, reazione che aveva portato all’emanazione l’8 giugno 1992 di un decreto legge contenente nuove misure antimafia - che introduceva tra l’altro maggiori possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi ed ampliava le ipotesi di fermo di polizia - l’approvazione in Parlamento di quel decreto stava incontrando seri ostacoli da parte di un folto schieramento trasversale a tutte le forze politiche, che ne criticava le conseguenze eccessivamente pregiudizievoli per i diritti di difesa degli indagati per reati di mafia (tale decreto sarebbe stato approvato senza sostanziali modifiche solo l’8 agosto 1992, dopo l’ulteriore impressionante spargimento di sangue). La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa Nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione, ma l’evidenza dei fatti oggettivi conferma le dichiarazioni dei predetti collaboranti, secondo cui il sentimento prevalente in Cosa Nostra era quello per cui anche la situazione preesistente alla strage di Capaci era inaccettabile per l’organizzazione, che quindi, non doveva limitarsi ad evitare ulteriori inasprimenti ma doveva spingere la sua offensiva sino alle estreme conseguenze, non fermandosi sino a quando non avesse raggiunto il suo scopo,  la garanzia cioè che sarebbero state modificate tutte quelle norme che consentivano un più incisivo contrasto del fenomeno mafioso, anche se ciò avrebbe potuto comportare per un certo periodo “dei sacrifici”.
Tale conclusione in ordine all’unicità del disegno strategico che accomuna la strage di via D’Amelio a quella di Capaci ed agli omicidi Lima e Salvo costituisce, pertanto, un punto certo sul quale fondare le ulteriori ricerche in ordine ai tempi ed alle modalità di deliberazione della strage per cui è processo.
[...] Ma tornando adesso all'episodio del colloquio tra il Ganci ed il Riina appare a questo punto evidente la portata e la rilevanza delle perplessità manifestate dal primo e come non esse non fossero affatto incompatibili con le decisioni adottate nelle precedenti riunioni. Il Ganci, infatti, non intendeva affatto rimettere in discussione la strategia stragista che era stata deliberata, né tanto meno l'esecuzione dell'attentato a Borsellino, al quale già anni prima egli aveva preso parte con molti dei suoi uomini più fidati, bensì intendeva intervenire nell'ambito di quella discrezionalità che era stata riservata al Riina dai componenti della commissione provinciale per invitarlo a riflettere sull'opportunità di dilazionare quell'esecuzione. Appare evidente che un peso rilevante nell'indurre il Ganci a quella cautela doveva avere la consapevolezza del fatto che erano in corso di esame in Parlamento le misure antimafia adottate con decretazione d'urgenza dopo la strage di Capaci e la cui approvazione era ostacolata da diverse parti politiche con uno schieramento che era trasversale ai vari partiti. Per il Ganci l'esecuzione dell'attentato a Borsellino in quel momento avrebbe inevitabilmente comportato l'approvazione di quel decreto e ciò lo indusse a consigliare al Riina un differimento, ma quest'ultimo, pur avendo certamente preventivato quel rischio, riteneva - come hanno evidenziato tutti i predetti collaboratori - che se si voleva ottenere nel medio periodo un vantaggio per Cosa Nostra attraverso la strategia stragista non ci si poteva fermare di fronte al rischio di subire nel breve periodo un inasprimento delle misure antimafia, perchè tali esitazioni avrebbero reso meno temibile l'organizzazione, facendola apparire meno risoluta a non fermarsi di fronte a nulla e ne avrebbero, quindi, ridotto il peso contrattuale nella trattativa. Il Riina, inoltre, se non altro doveva già allora essere stato informato quanto meno delle "avances" che erano state fatte al Ciancimino dai predetti Ufficiali del R.O.S. e questo doveva averlo indotto a ritenere che alle loro spalle vi erano personaggi politici che dopo la strage di Capaci erano più disponibili ad un accordo che ad una reazione e voleva, quindi, prima di aprire la trattativa vera e propria, presentarsi a quel tavolo da una posizione di forza, mostrando una volta di più la potenza della propria organizzazione ed al contempo eliminando chi quella trattativa avrebbe potuto certamente ostacolare. La consapevolezza di quelle "avances" (di altre trattative non esiste, come si è detto, allo stato degli atti alcuna certezza) doveva indurre il Riina ad assumere di fronte alle perplessità del Ganci quella sicurezza che si è detta, mentre quest'ultimo, che non possedeva lo stesso grado di conoscenze, era anche per questo indotto a rimettersi alla valutazione del Riina dopo avergli esposto i suoi dubbi".      

Corte di Assise di Caltanissetta, sentenza n. 23 del 9 dicembre 1999 (motivazioni depositate il 9 marzo 2000) sulla strage di via D'Amelio (cosiddetto Borsellino-ter), poi divenuta irrevocabile.


"I quattro delitti del 1992 intervenuti tra marzo e settembre, l’omicidio Lima, le stragi di Capaci e via D’Amelio e l’omicidio Salvo furono infatti, e senza alcun dubbio, avvinti tra loro dalle intenzioni dei vertici di Cosa Nostra di frantumare le precedenti connivenze per crearne di nuove e sbaragliare i nemici più pericolosi per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione.
La pubblicazione della sentenza della Suprema Corte del 30 gennaio 1992 ed i suoi infausti esiti per le cosche segnarono poi, come più volte ribadito, il dies a quo di una strategia del terrore che doveva verosimilmente, nelle intenzioni dell’associazione criminale, fondare i presupposti di una contrattazione con le istituzioni repubblicane in posizione di assoluta preminenza.
[…] E’ emerso in primo luogo che la strage di via D’Amelio sia stata dettata da ragioni di urgenza tali da far sospendere i piani già elaborati ed in fase di esecuzione che prevedevano la eliminazione dell’On. Calogero Mannino e cui lo stesso Brusca si era dedicato, su espressa richiesta del Riina.
Dall’altro che nell’intervallo compreso tra la strage di Capaci e l’autunno del 1992, fu avviato un singolare contatto tra i vertici dei ROS rappresentati dal Gen. Mori e dal Cap. De Donno, e l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino, di cui erano note le contiguità mafiose […].
Tale ultimo aspetto ebbe modo di materializzarsi in alcuni incontri romani, solo il primo dei quali (avente natura del tutto preliminare e con il solo Cap. De Donno) precedente al 19 luglio,  secondo la versione del Gen. Mori […]                                           
Tale “trattativa” dai contorni anomali, spiegabile solo col clima di sbandamento evidenziato plasticamente dal Gen. Mori nel descrivere gli effetti della strage di Capaci (lo Stato era in ginocchio), proseguita dopo la strage secondo la successione degli incontri indicata dallo stesso Gen. Mori e definitivamente interrotta solo con l’arresto del Ciancimino nel dicembre successivo in esecuzione di pena detentiva definitivamente irrogatagli, non ebbe alcuno sbocco concreto anche perché diversi erano gli intenti perseguiti dagli interlocutori.
[…] Secondo il Brusca, il Riina aveva commentato l’atteggiamento degli interlocutori dicendo che “si erano fatti sotto” ed in conseguenza di ciò, aveva loro presentato “un papello” di richieste.
Tale “papello” invero, secondo la versione del Brusca, rifletteva essenzialmente le preoccupazioni del Riina per gli aspetti devastanti su Cosa Nostra derivanti dalla legislazione sui pentiti e dall’inasprimento del regime carcerario di recente introdotto, e prevedeva la richiesta di attenuazione dei provvedimenti cautelari, per taluni soggetti di vertice tra cui il Calò e lo stesso Brusca Bernardo.
[…] Sempre dalla parole del Brusca, ancora riscontrate dalla conferma avutasi dal gen. Mori, era emersa una seconda trattativa, cronologicamente incrociata con quella di cui si è appena detto, questa volta avente per oggetto la restituzione di talune opere d’arte sottratte da Cosa Nostra, sempre in cambio di benefici carcerari per alcuni esponenti di spicco dell’associazione criminosa, tra cui Brusca Bernardo e Calò Giuseppe il cui inserimento nella ‘lista’ dei beneficiari, era stato propugnato direttamente dal Riina. 
[...] Può pertanto ritenersi plausibile, ad avviso della Corte, che al Riina fosse giunta notizia della disponibilità alla trattativa, come si evince peraltro dal richiamo al presentato "papello"". 

Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, sentenza n. 1 del 7 febbraio 2002 (motivazioni depositate il 6 maggio 2002) sulla strage di via D'Amelio (cosiddetto Borsellino-ter), poi divenuta irrevocabile.

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Dunque la trattativa tra Stato e mafia non è "presunta", ma certa.
Ora, finchè a negare l'evidenza e la verità sono ipocriti doppiopesisti, depistatori di professione e opinionisti genuflessi al potere nulla di strano (elencarli tutti è impossibile perchè la lista sarebbe sempre incompleta).
Però se anche "Narcomafie" - mensile fondato da don Luigi Ciotti, edito dal Gruppo Abele e realizzato in collaborazione con Libera - si accoda alla suddetta maleodorante compagnia, sbattendo addirittura in copertina "la presunta trattativa Stato-mafia" (n. 9, settembre 2013), allora la situazione è molto più preoccupante del previsto.    
Tuttavia un rimedio c'è.
Quando sentite qualcuno accostare "trattativa Stato-mafia" alla parola "supposta", siate consapevoli del fatto che non sta usando né un aggettivo, né il participio passato del verbo "supporre".
Si tratta - è proprio il caso di dirlo - di un sostantivo.
E voi ne siete i destinatari.



domenica 5 ottobre 2014

DIEGO DELLA MANCIA


Giovedì 2 ottobre 2014.
Nella trasmissione "Servizio Pubblico" Michele Santoro intervista l'imprenditore Diego Della Valle, il quale - non pago di aver rivelato urbi et orbi il sesto mistero glorioso, ovvero la sua premurosa attenzione verso "famiglie, operai e piccole aziende" - snocciola un'autentica perla di saggezza:

"Quando c’erano i poteri forti veri, i Romiti, i Geronzi, i Cuccia, il governatore Fazio e tante altre persone, io ero in trincea perché avevo preso delle posizioni semplici, cioè quelle di tentare di fare le cose che ritenevo giuste in posti dove ero entrato perché investivo il mio denaro. Io quelle persone lì le ho combattute nei momenti veri e insieme all'aiuto di altri li abbiamo anche mandati a casa. Se oggi Cesare Romiti dibatte della politica italiana dai giardinetti di Marino dove magari gioca a bocce, bisogna ringraziare una serie di italiani che han preso un giorno una decisione per la serietà e per il decoro di una grande compagnia e lo hanno gentilmente accompagnato a casa e io di questi probabilmente sono quello che ha cominciato a farlo per primo. Quindi quando si parla di poteri forti bisogna almeno sapere di che cosa si parla. [...] Gli italiani perbene, soprattutto i più poveri, sono pienissimi di dignità. E' quando ci si alza ai livelli più alti che la dignità comincia a sparire".


Diego Della Valle: << Sono proprio matto! >> 

Giovedì 17 aprile 1997.
Il presidente della Fiat Cesare Romiti è fresco di condanna.
Otto giorni prima, infatti, il Tribunale di Torino lo ha giudicato colpevole dei reati di falso in bilancio, frode fiscale e finanziamento illecito ai partiti (1 anno e 6 mesi di reclusione e 8.200.000 lire di multa).
Allora "Il Sole 24 ORE" pubblica una lettera scritta (e pensata, anche se è difficile a dirsi) dall'élite del capitalismo nostrano, il fior fiore della finanza e dell'industria italiote:

"Le decisioni del tribunale di Torino fanno prevedere un seguito certamente non breve all'iter giudiziario già da quattro anni in corso a carico di taluni tra i massimi esponenti del maggior gruppo industriale privato del nostro Paese. Queste decisioni ripropongono per l'ennesima volta il problema dei rapporti tra imprenditoria e politica, rapporti che sono tanto più inevitabili quanto maggiori sono le dimensioni delle imprese coinvolte e debbono essere esposti costantemente a scrutinio per accertarne l'assoluta asetticità. In pari tempo non si possono perdere di vista le mutate dimensioni delle maggiori aziende e la complessità crescente delle strutture gestionali per cui in altri Paesi - cominciando dagli Stati Uniti - vale il principio di escludere dal perimetro delle responsabilità operative i fatti che abbiano una rilevanza assolutamente marginale rispetto alle dimensioni dei conti delle imprese, quasi a ripetere il vecchio adagio: de minimis non curat praetor. La magistratura italiana ritiene opportuno di seguire criteri rigoristici, anche se essi possono portare a riflessi negativi, essi sì sproporzionati all'importanza dei fatti sulla vita delle imprese e sulla serenità della loro conduzione. 
I sottoscritti che sanno l'impegno personale, la dirittura morale e l'ortodossia di comportamento che hanno sempre caratterizzato l'attività di Cesare Romiti, vogliono, in questa occasione, esprimergli tutta la loro stima e la loro piena solidarietà, convinti che le sue doti personali e di carattere gli consentiranno di portare avanti il proprio lavoro dando a questo episodio il peso che esso effettivamente merita"

Seguono 45 firme, tra cui spiccano quelle di Enrico Cuccia e Diego Della Valle (e di Antoine Bernheim, Enrico Bondi, Giancarlo Cerutti, Ennio Doris, Luigi Lucchini, Alfio Marchini, Vittorio Merloni, Leonardo Mondadori, Letizia Moratti, Umberto Nordio, Sergio Pininfarina, ...).

Sarà certamente un caso, ma entrambi gli scopi della lettera - chiedere la depenalizzazione del falso in bilancio ed esprimere solidarietà a Romiti - saranno pienamente raggiunti. 

1) Il 16 aprile 2002 - esattamente 5 anni dopo - entra in vigore il decreto legislativo n. 61/2002, che depenalizza di fatto proprio il reato di falso in bilancio. 
La norma viene emanata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e reca le firme di Silvio Berlusconi (Presidente del Consiglio dei Ministri), Roberto Castelli (ministro della Giustizia), Giulio Tremonti (ministro dell'economia e delle finanze) e Antonio Marzano (ministro delle attività produttive).
Ora, che cosa c'entri l'abolizione del falso in bilancio - mezzo fondamentale perchè gli imprenditori disonesti possano evadere le tasse e creare fondi neri da utilizzare per corrompere - con la giustizia, l'economia e le attività produttive non è dato sapere.
Ma forse è fin troppo chiaro. 

2) Il 28 maggio 1999 la Corte d'Appello di Torino condanna Cesare Romiti a 1 anno di reclusione e a 6.400.000 lire di multa, mentre il 19 ottobre 2000 la Cassazione emette il verdetto definitivo: 11 mesi e 10 giorni di reclusione e 6.200.000 lire di multa.  
Dunque l'uomo al quale (anche) Diego Della Valle esprimeva "stima" e "piena solidarietà", poichè ne apprezzava "l'impegno personale, la dirittura morale e l'ortodossia di comportamento che hanno sempre caratterizzato la sua attività", diventa un pregiudicato per reati gravissimi.
Ma non è finita qui.
Proprio a causa del d.lgs. n. 61/2002, il 1° dicembre 2003 la Corte d'Appello di Torino è costretta a revocare la condanna passata in giudicato tre anni prima perchè "il fatto non è più previsto dalla legge come reato".

Guarda un po', a volte, le coincidenze...

Come abbiamo visto, tra i firmatari della lettera del 17 aprile 1997 c'è anche Diego Della Valle, che non è un omonimo del nuovo eroe nazionale di cui gli italiani - bontà loro - potrebbero presto innamorarsi (sempre che non l'abbiano già fatto).
E' lo stesso che "ha combattuto" così strenuamente "i poteri forti veri" da aver aderito a un appello insieme a uno di loro (Enrico Cuccia) per esprimere a un altro (Cesare Romiti) "stima" e "piena solidarietà".
E pretende pure di essere ringraziato per averli addirittura "mandati a casa"
Capito lo stratagemma? 
Della Valle prima firma con Cuccia una lettera di solidarietà nei confronti di Romiti, ma contemporaneamente li combatte entrambi a tal punto da riuscire ad "accompagnarli a casa"
Finalmente abbiamo trovato un coraggioso cavaliere, Diego Della Mancia, che "quando si parla di poteri forti" sa esattamente "di che cosa si parla".

Tornando alla missiva del 17 aprile 1997, è bene ricordare che quattro giorni dopo - lunedì 21 aprile 1997 - un imprenditore di Desio (Brianza) si siede alla scrivania del proprio ufficio e si suicida, sparandosi al cuore.
Il suo nome è Ambrogio Mauri.
Classe 1931, gestiva un'azienda di 34 dipendenti che produceva mezzi pubblici di trasporto (autobus e tram).

Ambrogio Mauri

Purtroppo, in un'Italia governata dal malaffare, che "premia i più bravi a corrompere e non i più bravi a produrre" (secondo un'efficace espressione usata da Milena Gabanelli nella puntata di "Report" del 30 settembre 2012), Ambrogio Mauri ha un difetto gravissimo e imperdonabile: l'onestà.
Riceve commesse da tutto il mondo, ma in Italia, a Milano, niente: la sua impresa viene puntualmente esclusa dalle gare dell'Atm, l'Azienda Trasporti Milanesi poi travolta dall'inchiesta Mani pulite.
Il motivo è semplice: Ambrogio Mauri non vuole adeguarsi alla consuetudine di retribuire gli amici degli amici per ottenere appalti pubblici, rifiuta di essere complice di quel gigantesco sistema corruttivo così diffuso nell'Italia di allora (e di oggi).
Si reca in Procura per raccontare ad Antonio Di Pietro tutto il marcio che vede intorno a sè.
Incoraggia con forza i magistrati del pool milanese, perchè convinto che dopo Tangentopoli la corruzione sarebbe stata solo un brutto ricordo e il denaro dei cittadini sarebbe stato finalmente assegnato solo alle imprese migliori e non alle più ladre.
Si illudeva.
Tutto rimane come prima, come sempre: mazzette, mazzette e ancora mazzette.
Per un imprenditore come Ambrogio Mauri - laborioso, appassionato, produttivo, innovatore e corretto - si ripresenta il solito, terribile ricatto, impunemente perpetuato da uno Stato incivile e criminale: o versi le tangenti a chi di dovere - come tutti gli altri industriali - e allora puoi lavorare, avere successo e stipendiare i tuoi operai; oppure mantieni la schiena dritta, rimani un uomo onesto, ma non lavori più, perdi tutto (il frutto dei sacrifici di una vita intera) e sei costretto a licenziare i tuoi lavoratori.
Lui, Ambrogio Mauri, non cede: non avrebbe mai e poi mai pagato il pizzo ai ladroni di Stato.
Per questo si toglie la vita, "per aver detto no alle tangenti" (come recita il sottotitolo di uno stupendo libro di Monica Zapelli uscito nel 2012).   



Ecco, mentre (anche) Diego Della Valle solidarizzava con un potente condannato da un tribunale per aver evaso le tasse e truccato i bilanci aziendali allo scopo di creare fondi neri da utilizzare per oliare i politici, Ambrogio Mauri si ammazzava, vittima di quella criminalità ormai divenuta un cancro economico e sociale da cui l'Italia non vuole guarire
Ma per quell'imprenditore brianzolo che muore a 66 anni per rispetto della propria dignità di uomo libero e perbene, nessuna lettera di sostegno.
Le uniche lettere sono le sue, scritte prima di dire addio a una vita dedicata al lavoro e persa per aver sempre detto no alla corruzione, no alle scappatoie, no all'illegalità.
In esse - nove in tutto, lasciate sulla scrivania dell'ufficio dove aveva deciso di spararsi - si possono leggere pensieri come questi:

"Lo so, è una scelta che non dovrei fare, ma ogni giorno che vengo in ufficio è una sofferenza. Mi sento inutile e quel che è peggio non credo più nel futuro".

"Io ho tentato ma…non sono riuscito a pagare. Che stupido".

"Mi trovo con un mondo che non comprendo più. I valori che mi hanno insegnato sembrano scomparsi".

"Tu [la moglie Costanza, N.d.A.] sei il mio primo e ultimo bene. Forse, se fossi stato più malleabile, le cose sarebbero andate diversamente e non ti avrei dato tutti questi problemi. Il mio suicidio è l'atto finale del mio amore".

"Peccato che io non credo più in questo paese, dove, corruzione e prepotenze imperversano sempre.
Auguro , a chi continua a resistere , di avere  maggiore “fortuna” di me.
Potrà sembrare un atto di egoismo. Non lo è sono proprio stufo di lottare ogni giorno contro la stupidità e la malafede e non capisco se è incompetenza.
Come tanti, ho cercato disperatamente di fare il mio dovere, di uomo, di imprenditore. Sempre.
Qualcuno preparato c’è , però sono casi isolati.
Abituato ad essere uno che guardava avanti con fiducia, ora, dopo tangentopoli tutto è tornato come prima. Più raffinati. Forse chissà saranno anche onesti.
Una cosa è certa la professionalità non pone al primo posto l’interesse pubblico.
C’è chi rinuncia alla vita perché non riesce a lavorare per troppa trasparenza.
Non serve a nulla essere professionalmente seri.
Il mio vuole essere un gesto estremo della protesta di chi si sente isolato dalla così detta società Civile.
P.S. – una bara povera e un ciuffo di margherite il resto è solo retorica. Se fosse possibile vorrei essere il primo sepolto nel nuovo cimitero per essere più vicino al luogo dove ho lavorato e… sofferto molto".

"L’onestà non paga. La correttezza e la trasparenza non pagano. Questo non è più il mio mondo. Sono stanco, ora tocca a voi".

Già, ora tocca a noi.

P.S. "Gli italiani perbene sono pienissimi di dignità. E' quando ci si alza ai livelli più alti che la dignità comincia a sparire", ha detto Diego Della Valle a "Servizio Pubblico".
Parole sante.
Ovviamente lui non appartiene ai "livelli più alti", perchè - come ci ha spiegato - è abituato a combatterli.
Ma Diego Della Mancia, chissà...