lunedì 12 novembre 2012

IL DIRITTO DI (NON) LAVORARE

Non esiste solo il diritto di lavorare (sancito - con buona pace del ministro Elsa Fornero e non solo - dalla Costituzione italiana), bensì anche il diritto di non lavorare.  
Infatti la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha ricordato che: 

- se in un reparto di un'azienda sussistono condizioni di insalubrità e pericolosità (ad esempio, permangono scadenti condizioni di pulizia, si sviluppano gas e vapori tossici o si diffondono polveri nocive senza un'idoneo impianto di aspirazione, ...) tali da mettere, anche solo teoricamente, in pericolo la salute dei lavoratori, il rifiuto da parte di costoro di continuare a lavorarvi è "giustificato"
Inoltre, sempre in presenza di un quadro di insicurezza e pericolosità per la salute, è "irrilevante" la circostanza per cui nessun lavoratore abbia contratto malattie riferibili agli agenti patogeni presenti nei locali aziendali (sentenza 18 maggio 2006, n. 11664);

- alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'imprenditore è civilmente responsabile qualora non predisponga tutte le misure e le cautele necessarie per preservare l'integrità psico-fisica e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. 
In tali casi, i lavoratori non solo hanno il diritto di ottenere un risarcimento dei danni subìti, ma anche il diritto di astenersi da quelle prestazioni la cui esecuzione possa pregiudicare la loro salute.
Conoscendo la pericolosità dei posti di lavoro, possono persino timbrare il cartellino, senza poi lavorare nelle zone a rischio: infatti un simile comportamento rappresenterebbe una "giustificata reazione" al precedente inadempimento del datore di lavoro, in base al principio (sancito dall'art. 1460 del codice civile) secondo cui ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere i suoi obblighi, se l'altro non adempie contemporaneamente i propri (sentenza 5 novembre 2012, n. 18921).

Affiorano nella mente, preziose come sempre, le parole pronunciate dal giudice Antonino Caponnetto ai ragazzi dell'Istituto Tecnico Commerciale “Michele Gortani” di Tolmezzo (Udine) il 15 maggio 1995:

"Sentite questo eptalogo, questi sette comandamenti di Michele [Del Gaudio, giudice istruttore di Savona che nel 1982 aveva ordinato l'arresto per corruzione di tutti gli uomini socialisti più potenti della Liguria, ottenendone poi la condanna, N.d.A.], cercate di racchiuderli nell'animo, di non dimenticarli. Fate uno sforzo di memoria e nei momenti di sconforto, di sfiducia, cercate di riandare a questi comandamenti di Michele:
"Rifiutate i compromessi. Siate intransigenti sui valori. Convincete con amore chi sbaglia. Rifiutate il metodo del saperci fare, questo vezzo italiano della furbizia, io ce la so fare, a me non me la fanno. Non chiedete mai favori o raccomandazioni".
Questo è un ammonimento importante. La Costituzione e le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere. Esigete i vostri diritti sempre con fermezza, con dignità. Non chiedete mai come elemosina quello che le leggi vi accordano come diritti. Chiedeteli, esigeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Dovete esigerli! Questo è un imperativo, che deve sorreggere tutta la vostra vita. E' un imperativo di dignità, di dignità umana. Abbiate sempre rispetto della vostra dignità e difendetela anche in questo modo, esigendo i vostri diritti e non chiedendoli come favori o come raccomandazioni, al politico, al potente, al funzionario di turno".

domenica 4 novembre 2012

UN NUOVO CASO ALDROVANDI

Riccardo Rasman  dopo l'incontro con la Polizia
Trieste, venerdì 27 ottobre 2006. 
E' sera.
Riccardo Rasman (34 anni, in cura presso un centro di salute mentale, in quanto affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”) viene visto da alcuni condòmini sul balcone di casa, nudo, intento a masturbarsi e a lanciare grossi petardi, uno dei quali esplode vicino alla figlia del portiere del condominio (che sta camminando per strada in compagnia del proprio cane), provocandole una sospetta lesione del timpano.
Gli inquilini dello stabile contattano le forze dell'ordine.
Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi - componenti gli equipaggi delle Volanti 3 e 4 della Questura di Trieste - intervengono.
Rasman li minaccia di morte, nel caso in cui entrino nell'appartamento.
Gli agenti si informano in maniera sufficiente del suo stato di salute mentale e attendono più di 20 minuti nel tentativo di convincere l'uomo ad aprire spontaneamente la porta.
Anche se Rasman interrompe il lancio di petardi, al suo reiterato rifiuto di aprire la porta e senza attendere le informazioni richieste alla centrale operativa, i poliziotti sono costretti ad abbattere la porta d'ingresso e a fare irruzione nell'appartamento insieme a una pattuglia di Vigili del Fuoco.
A questo punto Rasman li aggredisce (mettendo così in atto le pesanti minacce rivolte poco prima), scagliandosi contro di loro con una violenza inaudita e ingiustificata, cagionando agli stessi alcune lesioni. Ne nasce una colluttazione al cui termine gli agenti spingono a terra l'uomo, lo immobilizzano, lo ammanettano e lo costringono a rimanere in posizione prona sul pavimento.
A questo punto gli agenti salgono alternativamente sulla sua schiena, esercitando con le ginocchia una notevole pressione.
Rasman si dimena, scalcia, si lamenta, respira con affanno, sempre più lentamente, finchè le sue capacità respiratorie si riducono in maniera significativa. 
Dopo circa 5 minuti e mezzo in simili condizioni, muore per "asfissia da posizione" e conseguente arresto cardiaco.

In tutti i gradi di giudizio - Gip di Trieste (sentenza del 29 gennaio 2009), Corte d'appello di Trieste (sentenza del 30 giugno 2010) e Cassazione (sezione IV penale, sentenza 6 settembre 2012 n. 34137) -  i tre poliziotti sono stati giudicati colpevoli di eccesso colposo nell’adempimento del dovere e nella legittima difesa e di cooperazione in omicidio colposo (esclusa la legittima difesa, sono gli stessi, identici reati addebitati ai quattro poliziotti assassini di Federico Aldrovandi).
Nonostante i tre poliziotti siano stati giudicati colposamente responsabili della morte di Riccardo, i giudici hanno scisso in due parti l'intervento degli agenti: il primo legittimo e doveroso, il secondo illegittimo e penalmente rilevante.

1) Fino all'ammanettamento di Rasman l'intera condotta dei poliziotti è stata del tutto corretta e legittima, poichè caratterizzata dall'adempimento del proprio dovere e dalla legittima difesa. Gli agenti hanno agito in stretto adempimento dei propri doveri sanciti dal Codice di Procedura Penale, al solo scopo di porre fine a una situazione pericolosa per l'incolumità di terzi e dello stesso Rasman, posta l'evidente pericolosità derivante dalla detenzione di esplosivi da parte di una persona affetta da patologie psichiatriche. 
I giudici, il responsabile del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Trieste e il direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste sono concordi nel ritenere che, spettando soltanto ai poliziotti decidere come agire e non sussistendo protocolli o disposizioni operative applicabili nel caso specifico, sarebbe stato del tutto irrilevante e inutile attendere lumi dal servizio di salute mentale o l'arrivo di un infermiere. 
Pertanto, aver fatto irruzione nell'appartamento di Rasman, averlo bloccato a terra in posizione prona e averlo ammanettato sono azioni per le quali non può essere addebitato ai poliziotti alcun rimprovero penale. 

2) Dopo l'ammanettamento, i poliziotti hanno indebitamente protratto - senza alcuna necessità - la contenzione sul pavimento di Riccardoin maniera tale da impedire la funzionalità dell'apparato respiratorio per molto tempo, nonostante l'uomo fosse stato immobilizzato a terra, prono, con gli arti superiori e in inferiori legati, sanguinante dalla bocca e dal naso. Condizioni in cui non poteva di certo nuocere.
In ciò va riscontrato, da parte dei tre poliziotti, il superamento dei limiti dettati dall'adempimento dei propri doveri e dalla legittima difesa.
Dopo l'immobilizzazione e l'ammanettamento, gli agenti hanno proseguito a premere a terra Rasman, in posizione prona, per più di 5 minuti e mezzo. Per cercare di sedarlo - avendo dato vita a una robusta e duratura colluttazione - gli agenti lo hanno mantenuto compresso a terra in posizione prona, memori del fatto che - dopo aver allentato la presa al termine della lotta sul letto, convinti di averne vinto l'opposizione - l'uomo aveva ripreso a lottare, profittando del loro rilassamento.
Così operando, tuttavia, gli imputati hanno frainteso il dimenarsi di Rasman (accompagnato dal colare del sangue dalla testa alla bocca, da una respirazione affannosa e da rantoli e lamenti uditi persino dai vicini di casa) con il persistere di intenti ancora bellicosi dell'uomo, senza minimamente intuire il pericolo - assolutamente prevedibile - di asfissia, quale concreto rischio per l'incolumità di Rasman, evitabile rimettendolo in posizione supina o comunque allentando la compressione sul torace e sull'addome. 
Anche considerando il presunto rischio di ricevere eventuali pugni o calci una volta "allentata la presa" (ipotesi più astratta che reale), esso non avrebbe dovuto dissuadere i poliziotti dal far assumere all'ammanettato una posizione consona a permettergli di riprendere le normali funzioni respiratorie, in base al prioritario rilievo della salvaguardia dell'incolumità di colui che si trovi sottoposto al loro potere. Tutto ciò in nome del principio fondamentale secondo cui l'impiego della coercizione e della forza fisica da parte delle forze dell'ordine è legittimo e giustificato solo entro i tempi e i modi strettamente necessari per immobilizzare e ammanettare una persona, la quale - resa innocua - deve solo essere protetta.  
Quindi, i poliziotti hanno commesso un errore imperdonabile, poichè frutto di imperizia, colposa negligenza e macroscopica leggerezza per non essersi accertati - una volta definitivamente immobilizzato a terra Rasman,  così posto in condizione di non nuocere - del pericolo per la sua incolumità derivante dall'impedimento alla funzionalità respiratoria che la perdurante compressione sul tronco e sull'addome aveva cagionato tanto da provocarne la cianosi del volto (pur riscontrata dal capo-pattuglia della Volante 1 chiamata a rinforzo quando ormai era troppo tardi per impedire l'esito fatale).
Non è infatti necessaria una scuola di polizia per intravedere la sussistenza di notevoli rischi per l'incolumità di un soggetto che venga costretto a terra in posizione prona, sotto la pressione esercitata sul dorso con le ginocchia o con il peso di altri individui. Gli esiti di simili atti (in generale e soprattutto nel caso specifico, date le sopra descritte condizioni) sono così facilmente prevedibili da potersi senza dubbio considerare dati rientranti nel patrimonio di conoscenza comune. Chiunque, infatti, sarebbe stato in grado di intuire l'elevata probabilità di provocare la morte di una persona alla quale - già in fortissimo debito di ossigeno dopo un ingente sforzo fisico sopportato nell'ingaggio di una lotta violenta - venga impedita la naturale funzionalità respiratoria, circostanza palesemente riscontrabile - nel caso di specie - dall'affannosa respirazione di Rasman da una parte e dai suoi continui lamenti dall'altra.
La sua morte va dunque posta in relazione causale con l'ammanettamento di un uomo in forte debito di energia (per aver aggredito gli agenti), sul cui dorso i poliziotti hanno continuato a esercitare pressione per circa 5 minuti e mezzo.
Insomma, dopo il legittimo ammanettamento, gli agenti hanno innescato un processo asfittico che ha cagionato la morte di Rasman, morte assolutamente evitabile se gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contenzione a terra, consentendo all'uomo di respirare normalmente. 
Ovvero se avessero agito secondo il comune buon senso e le regole della comune esperienza umana.

P.S. I tre poliziotti responsabili della morte di Rasman (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi)  sono stati condannati in ogni grado di giudizio a una pena di soli 6 mesi di reclusione ciascuno (sospesa dalla condizionale) e al risarcimento dei danni.  
Se dopo il caso di Federico Aldrovandi (identico nello svolgimento dei fatti criminosi commessi da alcuni membri della Polizia di Stato) qualcuno pensava ancora che l'Italia fosse un Paese civile e uno Stato di diritto, ora dovrà necessariamente ricredersi.


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giovedì 1 novembre 2012

CORROTTI IN DIVISA


La storia che qui racconto vede come protagonisti alcuni poliziotti corrotti (agenti e graduati), appartenenti alle autopattuglie di Polizia Stradale in servizio a Caserta Nord.
Le indagini penali sono partite a seguito di una denuncia presentata da un autotrasportatore di mezzi pesanti, a cui è seguita la disposizione di intercettazioni ambientali da parte della magistratura all'interno di due autovetture di servizio della Polizia Stradale (tali intercettazioni – dai contenuti giudicati inequivocabili - hanno rappresentato la principale fonte di prova. Alla faccia di chi vuole depotenziare un simile strumento investigativo spesso decisivo).
I fatti - svoltisi tutti nella prima metà del 2001 - sono stati commessi da sei poliziotti con abuso dei propri poteri e delle proprie funzioni, in palese violazione dei doveri da esercitare durante i servizi di controllo dei tratti di strada di competenza (in particolare, zone autostradali). 
Gli episodi criminosi accertati sono stati diversi. Eccoli:

1) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) 
Due poliziotti hanno accettato da un camionista la promessa della futura consegna di due polli rivolta loro perchè non venissero contestate le seguenti contravvenzioni: guida senza cintura di sicurezza e possesso di patente illeggibile;

2) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) 
Un autotrasportatore ha guidato ininterrottamente per un eccessivo numero di ore con alcune luci dell'autoarticolato non visibili in ora notturna. Il camionista - senza accampare alcuna giustificazione, in quanto pienamente consapevole delle infrazioni commesse - ha consegnato una somma di denaro a due poliziotti per riprendere la marcia indenne da qualsiasi contravvenzione;

3) corruzione per atti d'ufficio già compiuti (art. 318 c. 2 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto indebitamente dai conducenti di due automezzi (con trasporti eccezionali) la somma di 20.000 lire quale ricompensa per aver effettuato un servizio di scorta stradale ai due veicoli;

4)  corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto una somma di denaro dal gestore della ditta "Fiera del Mobile" di Riardo per non formalizzare l'ingiunzione a rimuovere i pali di sostegno di un cartellone pubblicitario installati a distanza irregolare dall'autostrada.
Hanno così eluso doverosi atti di ufficio dietro illecito compenso;

5) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno indotto un camionista a consegnare loro denaro per non procedere ai rituali controlli del suo camion. La mazzetta in denaro è stata consegnata;

6)  corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto dal conducente di un autocarro la somma di 30.000 lire al fine di non redigere verbale di contravvenzione per omessa detenzione della patente di guida.

Si tratta di fatti delinquenziali assai gravi, inseriti all'interno di un'estesa e risalente illegalità compiuta da membri degli equipaggi della Polizia Stradale, talmente nota agli autotrasportatori e ai camionisti soliti percorrere quei tratti autostradali da indurli ad accettare la diffusa prassi di consegnare piccole somme di denaro agli agenti della Stradale - pur in assenza di loro richieste esplicite - per non avere noie o per non essere multati a seguito di infrazioni al codice della strada. 
Insomma, esisteva un vero e proprio "sistema" criminale dove il mercimonio delle funzioni pubbliche e la prassi di remunerazioni tangentizie erano assolutamente abituali e costanti.
Basti considerare che i poliziotti erano soliti non scendere nemmeno dalle proprie vetture e non redigere alcun verbale, ma temporeggiare in attesa della consegna della tangente.

Nonostante in tutti i gradi di giudizio (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Corte d'Appello di Napoli e Cassazione) la colpevolezza degli imputati non sia mai stata messa in dubbio, alla fine la VI Sezione Penale della Cassazione ha dovuto dichiarare i reati commessi dai poliziotti estinti per intervenuta prescrizione (Sentenza 14 settembre 2012, n.35269). 
Ciò grazie a una delle sterminate norme ad personam varate dal governo Berlusconi: la sciagurata legge 5 dicembre 2005 n. 251, denominata ex Cirielli. Se infatti i termini di prescrizione del reato elencato al punto 3) sono rimasti invariati (7 anni e 6 mesi), quelli del reato contestato negli altri punti si sono dimezzati (da 15 anni a 7 anni e 6 mesi). Ciò significa che senza la legge berlusconiana ci sarebbero stati ulteriori 7 anni e mezzo di tempo, i reati si sarebbero prescritti il 27 luglio 2017 (e non il 27 gennaio 2010, come invece accaduto), dunque i poliziotti sarebbero stati condannati.