domenica 29 luglio 2012

UN MAGISTRATO DI NOME ROCCO

Rocco Chinnici
Palermo, venerdì 29 luglio 1983, via Giuseppe Pipitone Federico n. 59, zona centrale del capoluogo siciliano. Sono da poco passate le 8 di mattina. Un uomo esce di casa, si dirige verso la macchina che lo deve portare al lavoro. E' un attimo: una Fiat 126 verde - imbottita di circa 48 chili di tritolo e parcheggiata all'altezza del portone d'ingresso dell'edificio - salta in aria. Muoiono l'uomo appena allontanatosi da casa, due carabinieri (il maresciallo Mario Trapassi, 32 anni, e l'appuntato Salvatore Bartolotta, 48 anni) e il portiere dello stabile (Stefano Li Sacchi, 60 anni). Il bilancio finale della strage è di 4 morti e 19 feriti, tra cui l'autista Giovanni Paparcuri: sul momento entra in coma, ma poi se la caverà con un indebolimento permanente dell'udito. L'esplosione è devastante, la scena agghiacciante: morti e feriti a terra, l'androne dello stabile distrutto, saracinesche di negozi accartocciate, lamiere e schegge di carrozzeria sparse a vasto raggio, una buca sull'asfalto della strada del diametro di 70 cm e profonda 15 cm. Una scena di guerra.
L'obiettivo era l'uomo uscito di casa per recarsi al lavoro. Si tratta di un magistrato di 58 anni costretto da tempo a recarsi in Tribunale su un'Alfetta 2000 blindata e a vivere sotto scorta per le numerose minacce di morte ricevute (gli uomini in tal senso messi a sua disposizione sono 6 Carabinieri, di cui 4 sopravvivono miracolosamente all'attentato).
Si chiama Rocco Chinnici.
Nato a Misilmeri (Palermo) il 19 gennaio 1925, nel maggio 1966 era diventato giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo. L'anno seguente aveva istruito il suo primo processo di mafia, con tanto di mandati di cattura. Si disse subito fosse un procedimento "vacante, vuoto", cioè senza prove, basato sul nulla. In primo grado la Corte d'Assise palermitana avrebbe assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove, ma poi la Corte d'Assise d'Appello e la Cassazione avrebbero condannato quasi tutti per associazione a delinquere (confermando le assoluzioni per l'accusa di omicidio). Nel 1975 Chinnici era diventato Consigliere Aggiunto; dal 6 dicembre 1979 dirigeva l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo in qualità di Consigliere Istruttore. Il suo predecessore, il giudice Cesare Terranova, era stato ucciso da Cosa Nostra 72 giorni prima, il 25 settembre 1979. 
La strage mafiosa cui risulta vittima Chinnici rappresenta un segnale di notevole cambiamento in Sicilia. Se infatti Cosa Nostra aveva ucciso altri fedeli servitori dello Stato - il poliziotto Boris Giuliano (21 luglio 1979), il carabiniere Emanuele Basile (3 maggio 1980), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e il magistrato Gaetano Costa (6 agosto 1980), oltre il già ricordato Terranova - sparando colpi di arma da fuoco alle spalle o attraverso il finestrino dell'auto della vittima, per Chinnici i boss scelgono per la prima volta la strage eclatante, inaugurando tristemente la stagione delle autobombe destinate agli uomini leali alle Istituzioni (gli unici altri a subìre una simile fine "spettacolare" sarebbero stati nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi giudici dell'ufficio Istruzioni retto da Chinnici).

L'attentato al giudice Rocco Chinnici (© Franco Zecchin)    

Ma perchè inaugurare una strategia terroristica così plateale? Perchè colpire Chinnici?
Innanzitutto il contesto.
Siamo nei primi anni '80. La Sicilia è caratterizzata da una generalizzata scarsa sensibilità e attenzione per la mafia. Le indagini vengono svolte solamente grazie alla buona volontà e capacità investigativa di ben pochi magistrati, peraltro non organizzati in gruppi di lavoro o in strutture efficienti. Complessivamente, la magistratura non mostra alcuna incisività repressiva nei confronti del sempre più dilagante fenomeno mafioso. L'andazzo è remissivo, l'aria di totale indifferenza. Quei limitati uomini fedeli allo Stato che invece decidono di combattere finalmente la mafia sono facilmente isolabili e isolati.
Sono anche gli anni della seconda guerra di mafia, iniziata il 23 aprile 1981 (con l'omicidio del boss Stefano Bontate) e terminata il 30 novembre 1982 (con l'uccisione dei mafiosi Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione e Salvatore Micalizzi). Pur maggioritari dalla fine degli anni '70 nella Commissione provinciale di Palermo (l'organo di vertice di Cosa Nostra, a cui spetta prendere le maggiori decisioni, tra cui gli omicidi da realizzare), i Corleonesi dei boss Salvatore Riina e Bernardo Provenzano vogliono impadronirsi dell'intera associazione criminale, spodestando a suon di centinaia di omicidi per strada la cosiddetta "ala moderata" di Cosa Nostra, i cui maggiori rappresentati sono i boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone.
Di fronte a tutto questo, che cosa fa Chinnici appena insediatosi al vertice dell'Ufficio Istruzione del Tribunale palermitano nel dicembre 1979?
Raccogliendo l'eredità spirituale del predecessore Cesare Terranova e proseguendone l'importante lavoro antimafia svolto con impegno, adotta tecniche investigative rivoluzionarie e metodi di lavoro innovativi per l'epoca: organizza gli uffici giudiziari, garantendo una più efficace e razionale impostazione del lavoro e predisponendo moduli operativi tali da consentire lo scambio di informazioni tra i magistrati titolari dei vari procedimenti; coordina le indagini mirate a cogliere la connessione tra i diversi delitti di mafia e a individuare collegamenti operativi tra i diversi gruppi criminali mafiosi; indaga sul patrimonio finanziario e bancario delle cosche, sequestrando per la prima volta conti correnti. Tutto ciò porta a un enorme salto di qualità nella repressione antimafiosa, rappresentando un'enorme svolta nella lotta a Cosa Nostra, fino ad allora quasi assente. 
Non solo.
Con tali innovazioni nel metodo lavorativo, Chinnici inaugura il lavoro di squadra dei magistrati, creando un metodo nuovo - quello del pool antimafia - che sarebbe poi stato ripreso e realizzato dal suo successore, il giudice Antonino Caponnetto. Non è un caso se:

- sia stato proprio Chinnici a chiamare a lavorare accanto a sè alcuni giovani magistrati che avrebbero poi costituito il famoso pool antimafia di Caponnetto, scoprendone e valorizzandone le straordinarie capacità: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello Finuoli. Tanto da aver fatto dire a quest'ultimo che "senza Rocco Chinnici non ci sarebbero stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino";

- il maxiprocesso a Cosa Nostra (che ha visto alla sbarra ben 475 imputati) sia stato il risultato, la conseguenza e la prosecuzione del lavoro istruttorio svolto da Chinnici. Tant'è vero che nella premessa dell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l'8 novembre 1985 dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (documento che ha portato al maxiprocesso), Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli scrivono:
"Riteniamo doveroso ricordare che l’istruttoria venne iniziata, oltre tre anni fa, dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che in essa profuse tutto il suo impegno civile, a prezzo della sua stessa vita".

Tuttavia gli encomiabili meriti di Chinnici non finiscono qui:

- è tra i primi a capire che la mafia è un fenomeno unitario, dal momento che dietro i numerosi delitti non ci sono solo i singoli esecutori, ma un folto gruppo di persone collegate tra loro che lavorano per gli interessi e il progresso dell'intera Cosa Nostra;

- intuisce (e lo denuncia pubblicamente) gli stretti rapporti tra mafia e importanti centri di potere politici ed economici, rappresentati dai cugini Antonino e Ignazio Salvo, da anni facoltosi esattori delle imposte, massima potenza economica siciliana e insospettabili proprietari di un impero miliardario. Denuncia lo spessore criminale di questi ultimi, nonostante il loro rilevante "peso" in Cosa Nostra, la loro caratura delinquenziale quali "uomini d'onore" della famiglia di Salemi e il loro fondamentale ruolo di anello di congiunzione tra boss mafiosi e politici locali e nazionali (tra i quali Giulio Andreotti) sarebbero stati appurati solo in seguito alle confessioni del boss pentito Tommaso Buscetta;

- scopre che la morte di Peppino Impastato non è stato frutto dell'esplosione di un ordigno da lui stesso collocato, bensì di un tipico delitto di mafia;

- attraverso le indagini bancarie svolte con Giovanni Falcone, non solo scopre che i mafiosi si servono delle banche, ma che esiste un collegamento tra Cosa Nostra e la 'ndrangheta, anche grazie a consistenti passaggi di denaro (dell'ordine di centinaia di milioni di lire) dalla Calabria alla Sicilia;

- sempre insieme a Falcone, scopre i collegamenti internazionali della mafia con il traffico di droga e i numerosi rapporti tra mafia palermitana e mafia americana. Istruendo un processo contro 24 imputati, Chinnici scopre un giro vorticoso di centinaia di milioni con gli Stati Uniti. Nella relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982, Chinnici dice: "Gli utili rilevantissimi ricavati dalla produzione e dalla vendita dell'eroina, calcolati in diverse migliaia di miliardi, attraverso il cosiddetto riciclaggio, operato da istituti di credito, da casse rurali ed artigiane, alcune delle quali gestite - anche se per interposta persona - dagli stessi mafiosi, vengono investiti nell'edilizia, nella trasformazione agraria, in attività commerciali e industriali dall'apparenza del tutto lecita. La mafia continua nell'attività e della produzione e del commercio di sostanze stupefacenti. Le indagini condotte da Falcone hanno messo in evidenza i legami della mafia siciliana e di quella calabrese e napoletana e dei gruppi che operano nell'Italia del Nord, con trafficanti di eroina e di armi belgi, francesi, mediorientali; hanno fornito conferma al fatto che le potenti famiglie che operano negli Usa e nel Canada e che provengono in massima parte dalla Sicilia occidentale, con particolare riferimento ai traffici illeciti di eroina, sono in posizione di dipendenza rispetto alle associazioni mafiose dei paesi di origine, specie dopo che il centro di produzione dell'eroina si è spostato dalla Francia meridionale a Palermo e fors'anche in Calabria e nel napoletano. Oggi il centro principale degli interessi mafiosi internazionali è costituito dai laboratori clandestini installati in Sicilia; l'isola - al centro del Mediterraneo, in posizione strategica - è anche punto di smistamento e di produzione clandestina di armi";

- solleva pubblicamente il tanto enorme, quanto sottaciuto problema del consumo di droga tra i giovani: "Bisogna capire quanto è triste e sconvolgente vedere dei giovani semidistrutti dall'eroina. Oggi a Palermo abbiamo 3.000/3.500 eroinomani. Fra dieci anni questa cifra potrà raddoppiare. Quale problema, quale dramma! Purtroppo qui da noi, col pressapochismo che ci contraddistingue, questo problema non viene affrontato come si dovrebbe. Si è portati a sottovalutare il problema della droga, i cui effetti deleteri non li vediamo ancora, ma li vedremo fra dieci anni. Perchè il tossicodipendente diventa un peso per la società, oltre che per le famiglie. Le 50.000 lire per le dosi di eroina bisogna trovarle! Come vi spiegate i 50.000 furti all'anno nella città di Palermo? Un'alta percentuale di rapine viene consumata da soggetti drogati. I nuovi accattoni sono i drogati. I furti nell'appartamento, delle autovetture! Ecco il problema, che prima di essere giudiziario è sociale, civile, umano. E i danni di tante famiglie, i suicidi di tanti ragazzi, di qualche genitore, le epatiti da siringa! Come si può rimanere insensibili, inerti? La mafia oggi è diventata la portatrice dei malanni più gravi. Perchè in passato se rapinava, se estorceva, se imponeva il pizzo, tutto sommato non cagionava tutto il male che oggi invece produce con la droga. Mafia e droga sono un binomio inscindibile. La droga è oggi la principale attività della mafia. La droga viene smerciata dalla mafia. La mafia come associazione per delinquere è stata sempre fuori legge. Ma ora è anche contro l'umanità. Il traffico della droga io lo considero un delitto di lesa umanità" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);

- sui rapporti tra mafia e politica ha - come sempre - le idee molto chiare:
"Il potere ha un rapporto spregiudicato di do ut des con la mafia" (da un convegno tenuto a Grottaferrata nel 1978);
"Se la mafia ha legami con il potere, se a volte diventa potere, come può il potere combattere se stesso? Non lo può. E, allora, noi non possiamo parlare di responsabilità di tutti i partiti politici. Noi dobbiamo parlare di responsabilità di quei partiti politici che fino a oggi hanno determinato il potere. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Dobbiamo essere sereni e obiettivi nel formulare i nostri giudizi. Le leggi che si fanno - ma io parlerei di leggi che non si fanno. Che leggi ci ha dato il potere dopo le conclusioni cui è pervenuta la Commissione antimafia? Nessuna legge. E allora: come non possiamo muovere questo gravissimo appunto al potere: ci avete dato leggi atte a combattere il potere mafioso? Non ce le avete date. Noi abbiamo dei discorsi commemorativi. Abbiamo lapidi per i magistrati, i funzionari, gli ufficiali che cadono. Ma per la gente che non ha un ruolo ben definito, che rimane vittima della mafia - che poi vittima della mafia è tutta la società nella quale viviamo - che cosa c'è, che cosa c'è stato in passato? Niente. Il silenzio. I cento morti di Palermo, che sono più di cento: dobbiamo aggiungere ai morti ufficiali le lupare bianche. Dobbiamo aggiungere i ragazzi vittime della droga: non sono questi ragazzi uccisi dalla mafia? Nessuno che abbia una sensibilità normale può esimersi, oggi, dal dare un contributo - quale esso sia - alla lotta contro la droga, che poi significa lotta alla mafia. Di questi ragazzi non ci sentiamo noi tutti responsabili? Veramente mi sento responsabile di questi morti. Perchè sono convinto - dobbiamo essere convinti - che nessuno di noi ha fatto quanto era in suo potere per combattere questa che è la più odiosa delle attività mafiose. Oggi il politico si caratterizza per la amoralità. Quando non si affrontano questi gravi problemi della mafia, quando non si affronta con la dovuta energia il problema della lotta alla droga, allora non siamo noi soli, noi cittadini, responsabili - noi lo siamo per quella indifferenza che ha caratterizzato il nostro comportamento - ma il politico, che avrebbe avuto il dovere di fare e non ha fatto nulla. Ecco perchè quasi un po' il rimorso, il senso di colpa, il problema morale, che devono essere sentiti da tutti , ma specialmente da coloro i quali noi mandiamo col voto al Parlamento per darci le leggi. Le leggi che il politico non ci dà. Le leggi che il legislatore non ci dà. E allora le colpe su chi? Beh, sui giudici, sulla polizia, su chi è chiamato istituzionalmente ad applicare le leggi. Ma se non ce le danno, quali leggi dobbiamo applicare noi? Il garantismo. Certo, il giudice non può condannare se non c'è una legge. Ma le leggi ce le devono dare. E allora, signori miei, il rimedio. Ecco: la mobilitazione delle coscienze. Perchè solo così, quando tutti noi saremo sensibilizzati, da questo momento in poi noi ci sentiamo solidali con chi è caduto, noi avvertiamo imperioso il bisogno di compiere il nostro dovere di cittadini: solo così si potrà dare un contributo per la lotta contro la mafia e contro la droga" (da un convegno organizzato dalla Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);
"La mafia non ha mai avuto credo politico. Se qualche volta, in passato, essa ha preso apertamente posizione, ciò non può essere interpretato in chiave politica, bensì in funzione semplicemente utilitaristica. In Sicilia la mafia sta dalla parte del potere, lo permea, spesso lo condiziona, per trarre dal rapporto con esso il maggior vantaggio possibile" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);
"La pubblica amministrazione è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all'altro alla soluzione del problema. Oggi non c'è opera pubblica in Sicilia che non costi 4 o 5 volte quello che era stato il costo preventivato, non già per la lievitazione dei prezzi, ma perchè così vuole l'impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato un colletto bianco" (da un convegno tenuto a Milano il 2 luglio 1983, 27 giorni prima la strage di via Pipitone);

- si spende strenuamente in difesa della legge Rognoni-La Torre, ovvero la legge 13 settembre 1982, n. 646 che ha introdotto il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e ha reso obbligatorio il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Partecipando come relatore a un incontro con altri magistrati impegnati in procedimenti antimafia - tenutosi a Castelgandolfo tra il 4 e il 6 giugno 1982 - Chinnici, pur riconoscendo che la mafia possa essere riconducibile entro lo schema dell'art. 416 c.p. (cioè l'associazione per delinquere semplice), sostiene che "data la complessità e le implicazioni di ordine socio-economico e politico connaturate al fenomeno, è grave errore farlo rientrare nella fattispecie dell'art. 416 c.p.. La realtà odierna impone l'urgente e indifferibile necessità di creare la nuova figura del reato di associazione mafiosa con pene diverse e più gravi rispetto alle sanzioni comminate per gli appartenenti alle associazioni per delinquere previste dall'art. 416 c.p.. Sul punto esiste l'articolato disegno di legge presentato dal compianto on. La Torre [deputato comunista ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982. La sua proposta legislativa sarebbe divenuta legge dello Stato solo dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, N.d.A.] e da altri deputati. Se pure, sul piano operativo, non sarà compito facile - attesa la segretezza particolare che regola le organizzazioni mafiose - raccogliere elementi probatori, nessuno che abbia conoscenza del fenomeno può sostenere che la norma dell'art. 416 c.p. sia ancora oggi utilizzabile per combattere efficacemente il fenomeno stesso. La nuova figura del reato di associazione mafiosa, con l'adozione di nuovi e più moderni metodi di indagine (accertamenti bancari, sequestri di beni illecitamente conseguiti, ecc.) demandati a organi di polizia giudiziaria qualificati potrebbe costituire valido mezzo nella lotta contro la mafia. Sempre che ci sia volontà di farla, questa giusta e civile battaglia".
A quei politici che parlano di norma illiberale, antisiciliana e dannosa per l'economia, Chinnici risponde: "Sono siciliano, sicilianissimo e le dico che la legge non è illiberale, non può creare colpi all'economia se rettamente applicata, anzi può sanare l'economia siciliana e quindi non può che essere positivo il mio giudizio. Poi, signori miei, ce la vogliamo porre una domanda da siciliani autentici, non da siciliani che fanno del sentimentalismo fuori luogo? Ce lo siamo mai chiesti perchè la mafia da 40 anni a questa parte non ha fatto altro che accrescere il proprio potere economico e incidere tanto negativamente sulla vita dell'isola?" (da un dibattito trasmesso da Rai Sicilia, in risposta a un deputato regionale che aveva attaccato la legge Rognoni- La Torre).
Non solo i politici, anche certi avvocati sono fermamente contrari alla legge Rognoni-La Torre. Uno di questi - legale civilista del boss Giovanni Bontate (fratello di Stefano) dal 4 dicembre 1983 al 28 settembre 1988 - si sarebbe occupato fino in Cassazione di contestare il sequestro dei beni patrimoniali del padrino (tra cui due grandi imprese di costruzioni, decine di appartamenti e terreni, dal valore complessivo di decine di miliardi di lire) e impedirne la confisca e l'incameramento da parte dello Stato. Durante il processo, il legale avrebbe evidenziato addirittura i "fondati e sostanziali rilievi di incostituzionalità della legge Rognoni-La Torre", di recentissima approvazione. Tale avvocato si chiama Renato Schifani e attualmente ricopre la carica di Presidente del Senato. Non solo era stato l'Ufficio di Chinnici ad aver emesso il mandato di cattura e l'ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti di Giovanni Bontate per associazione a delinquere nel traffico di stupefacenti, ma il penalista Paolo Seminara - l'altro difensore nominato insieme a Schifani da Bontate (all'epoca incarcerato all'Ucciardone di Palermo) - era stato citato nel diario personale di Chinnici: "Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due". Uno di questi era proprio l'avvocato Seminara;

- sul caso Sindona così si esprime: "Che cosa costituisce la vicenda del banchiere siciliano se non un emblematico esempio di intrecci non del tutto chiari tra potere politico-finanziario e mafia? Rimane fermo e accertato il rapporto tra Sindona e i gruppi mafiosi siculo-americani dediti alla produzione e al commercio di sostanze stupefacenti. Indubbiamente oscuri interessi e attività criminose - solo parzialmente scoperte - sono alla base di rapporti nei quali sarebbe ingenuo ritenere coinvolti soltanto Sindona e il gruppo mafioso palermitano Spatola-Inzerillo" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- interviene anche in merito ai frequenti silenzi della Chiesa: "La Chiesa non può rimanere insensibile". In caso contrario, un cardinale "verrebbe meno ai suoi doveri sacerdotali. In un incontro a Grottaferrataio parlai di taluni preti mafiosi. Purtroppo, abbiamo avuto qualche prete mafioso: è storia. Però, ecco, la Chiesa ha il dovere sacrosanto di intervenire. Se la Chiesa tace, incorre - a mio giudizio - in un gravissimo errore, perchè viene meno alla sua missione. Speriamo che ogni parroco, ogni sacerdote, ogni suora , ogni religioso consideri anche questo impegno contro la mafia, contro la droga, come un preciso dovere del suo ministero. Io credo che su questo dovere non si possono avere - neppure lontanamente - dubbi" (da un'intervista rilasciata al periodico palermitano "Segno" nel 1981);

- a chi addebita all'intera cittadinanza una collaborazione con la mafia dovuta al proprio silenzio, replica: "Non si può accusare di collaborazionismo una cittadinanza che ha visto uccidere il titolare dell'albergo Costa Smeralda che aveva collaborato. Non si può accusare di collaborazione una cittadinanza che non ha alcuna protezione nel potere, una cittadinanza che è stata abbandonata dal potere, una cittadinanza che vede la mafia padrona quasi assoluta della vita, dei beni, degli interessi economici della società. In queste condizioni io assolverei per insufficienza di prove e non condannerei. In queste condizioni io direi che semmai si può parlare di paura. Paura che avvinghia. Paura che attanaglia. Paura che fa preferire i 3 mesi di carcere per falsa testimonianza o per favoreggiamento, purchè si continui a vivere, se vita può essere quella di coloro i quali sono costretti a subire giornalmente la violenza mafiosa" (da un'intervento a un dibattito tenuto presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo il 17 dicembre 1981);

- intuisce i rapporti tra Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta: "Esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni [Sicilia, Calabria e Campania, N.d.A.]. Tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio di eroina, sono in rapporto con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d'origine siculo-calabro-napoletana, destinatarie dell'eroina prodotta in Sicilia e in Calabria ed operanti negli Usa e nel Canada". Inoltre denuncia i "rapporti concreti sicuramente illeciti tra i gruppi mafiosi delle tre regioni, con i collegamenti nelle città industrializzate, Torino e Milano in modo particolare" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- comprende la trasformazione della mafia in impresa: "L'accumulazione degli enormi profitti - tratti dalla produzione e dal commercio degli stupefacenti, dal contrabbando di tabacchi lavorati esteri, dalle estorsioni, dal cosiddetto pizzo, dai sequestri di persona - ha trasformato le famiglie mafiose in società imprenditrici. E' questa una realtà nuova. Le famiglie mafiose sono diventate delle vere imprese che operano nell'edilizia, nell'agricoltura e nel commercio; pertanto, oltre che forza reazionaria e criminale, collegata da sempre col potere, la mafia, oggi, è diventata potenza economica che condiziona financo il potere" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- segnala con forza il legame tra mafia e potere: "Oggi più che ieri, la mafia - inserita com'è nella vita economica dell'isola - non può fare a meno dei rapporti col potere; lo dimostrano avvenimenti, piuttosto recenti, che hanno visto imprese mafiose aggiudicarsi appalti di opere pubbliche per decine di miliardi estromettendo altre concorrenti, non mafiose, o comunque non legate alla mafia. La mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo nella vita siciliana, non può avere incidenza politica, se abbandona schemi collaudati da oltre un secolo, se - forte della potenza economico-finanziaria raggiunta - allenta i vincoli che la legano al potere. E se è vero che, per il raggiungimento di determinati obiettivi illeciti, ha mutato metodi e sistemi gangsteristici, è fatto incontestabile che il rapporto con certi settori del potere permane tuttora. Indubbiamente, le imprese mafiose che operano nell'edilizia, nell'agricoltura, nel commercio, proprio per il fatto che creano posti di lavoro e producono ricchezza possono incidere nel tessuto socio-politico ed economico della regione, nel senso che in occasione di consultazioni elettorali possono orientare parte dell'elettorato. Là dove esistono condizioni economico-sociali depresse, la mafia può approfittarne per accrescere la propria potenza e il proprio prestigio" (relazione svolta in un incontro con altri magistrati impegnati nei processi antimafia tenuto a Castelgandolfo nel giugno 1982);

- è convinto che nei processi di mafia gli elementi probatori debbano essere valutati in maniera diversa (pur nello spirito della legge) rispetto ai processi "semplici", riguardanti ad esempio le rapine.

L'innovativa attività antimafiosa del giudice Chinnici non si palesa solo nelle parole, ma soprattutto nei fatti. Nei poco più di 3 anni e mezzo in cui l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo è retto da Chinnici si segnalano svolte epocali per l’antimafia:

1) vengono arrestati e condannati il fratello di Stefano Bontate (Giovanni), Rosario Spatola e altri boss di notevole calibro per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga;

2) lo stesso Chinnici conduce personalmente (e instancabilmente) fino a pochi giorni prima di morire le indagini basate su un rapporto giudiziario redatto dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo e depositato in Procura il 13 luglio 1982. Tale rapporto - scaturito dall’emergenza della seconda guerra di mafia - è di fondamentale importanza per la ricostruzione del fenomeno mafioso, poichè denuncia i crimini di ben 162 mafiosi (Corleonesi e non), tra cui i più importanti esponenti di vertice, come Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Montalto e Salvatore Buscemi (la maggior parte dei quali sino ad allora sconosciuti). Si tratta della prima grossa indagine che punta dritto all’ala corleonese e ai suoi numerosi omicidi volti a scalare i vertici dell’organizzazione mafiosa e a controllare gli imponenti traffici di droga.
Il rapporto giudiziario - denominato "dei 162" - avrebbe poi costituito l'ossatura del procedimento istruito dal pool di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli che - a sua volta - avrebbe portato al celebre maxiprocesso.
Tale rapporto comprende:

- le indagini in tema di associazione a delinquere anche finalizzata allo spaccio di droga;

- l'intera serie di omicidi avvenuta fra il 23 aprile 1981 (uccisione di Stefano Bontate) e il 17 aprile 1982 (uccisione di Salvatore Corsino), giustamente interpretati come espressione di una contrapposizione fra famiglie mafiose per ragioni egemoniche. Nel rapporto si profila che, dopo una tregua di circa 3 anni seguita all’omicidio di Giuseppe Di Cristina (30 maggio 1978), l’uccisione di Stefano Bontate (capo della famiglia di Santa Maria del Gesù) e - a brevissima distanza - quella di Salvatore Inzerillo avevano segnato l’inizio di una lunga serie di omicidi interpretata come la manifestazione di una faida tra famiglie mafiose, per contendersi la partecipazione ai traffici di droga. Sempre nel rapporto si evidenzia che un gruppo vicino ai Corleonesi si era opposto a un altro gruppo mafioso facente capo a Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e ai loro alleati. In tale contesto le uccisioni di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo vengono valutate come una rottura degli equilibri preesistenti fra le famiglie mafiose, in attuazione di un disegno egemonico della mafia vincente (i Corleonesi) in danno di quella perdente di Bontate e Inzerillo.

Il 17 agosto 1982, poco più di un mese dopo il deposito del rapporto, l’Ufficio diretto da Chinnici emette un mandato di cattura a carico di 87 persone - appartenenti sia all’ala "moderata" che a quella emergente (fra cui i latitanti Giuseppe, Salvatore e Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto) - per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, per fatti commessi fino al 12 luglio 1982 (cioè un mese prima). Sempre nell’ambito del medesimo procedimento, nel 1983 Chinnici emette un ulteriore mandato di cattura per gli stessi indagati (più Antonino La Rosa, dunque nei confronti di 88 persone) e per gli stessi reati contestati fino al 18 gennaio di quell’anno. Il 31 maggio 1983 Chinnici emette un terzo mandato di cattura per ben 125 persone legate ai clan dei perdenti e degli emergenti (tra cui gli stessi dei due precedenti, come i latitanti Michele Greco, Salvatore Greco, Giuseppe Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e il detenuto Salvatore Montalto), per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga, contestata sino al 5 maggio 1983 (cioè 26 giorni prima). E ancora, sempre nell’ambito della stessa inchiesta, Chinnici coordina un’operazione conclusasi con un quarto mandato di cattura emesso da Giovanni Falcone il 9 luglio 1983 (20 giorni prima dell’omicidio di Chinnici) a carico di 14 indagati (tra cui, i latitanti Michele e Salvatore Greco, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano). Tra i reati ipotizzati: tentato omicidio (di Salvatore Contorno) e omicidio (del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di 3 Carabinieri e dei boss mafiosi Alfio Ferlito, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo). Nell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo l'8 novembre 1985 (che avrebbe dato il via al maxiprocesso), si legge:
"E' estremamente significativo che la reazione mafiosa, poi sfociata nell'attentato contro il cons. Chinnici, sia maturata non appena questo ufficio ha emesso, il 9.7.1983, mandato di cattura contro i più autorevoli esponenti della mafia. Allora era stato dimostrato, con l'emissione del mandato di cattura suddetto, che erano stati esattamente individuati la matrice e i moventi di tanti efferati assassinii. Sotto questo aspetto, dunque, l'atroce fine del cons. Rocco Chinnici - del capo, cioè, di quell'ufficio che aveva emesso il mandato di cattura in questione e del magistrato che aveva impresso un decisivo impulso alle indagini sulla mafia - costituisce l'amarissima conferma della fondatezza dei risultati raggiunti e dell'attendibilità delle prove acquisite".
Le indagini sul rapporto "dei 162" avrebbero avuto un impulso decisivo solo dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta il quale - oltre a confermarne la ricostruzione della situazione criminale mafiosa ivi operata - avrebbe fornito ulteriori decisivi elementi che avrebbero condotto alla scoperta dall’interno di questa organizzazione criminale, inchiodando alle loro responsabilità anche i cugini Salvo.
E' infine impressionante come la storia di questo rapporto giudiziario si sia intersecata con la condanna a morte di tante persone che vi avevano lavorato con impegno e professionalità: oltre a Rocco Chinnici, il Vice Questore Aggiunto di Polizia Antonino Cassarà e l'Agente di Polizia Roberto Antiochia (trucidati a Palermo il 6 agosto 1985, avevano sottoscritto il rapporto), i giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (fatti saltare in aria tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, l'8 novembre 1985 avevano depositato l'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio per 475 imputati di mafia, grazie alla quale si era celebrato il maxi-processo). Un rapporto, dunque, cosparso dalla lunga scia di sangue. Anzi, al rapporto "dei 162" è indirettamente collegata anche l’uccisione del luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima (12 marzo 1992), caduto in disgrazia agli occhi di Cosa Nostra - a cui era stato vicino - per gli esiti negativi del maxi processo che si era concluso in Cassazione il 30 gennaio 1992 con la conferma di pesantissime condanne e con l’annullamento con rinvio di tante assoluzioni;


3) essendo Chinnici titolare, personalmente, di numerose inchieste delicate (tra cui il rapporto "dei 162"), intuisce – attraverso perizie balistiche comparative compiute su bossoli e proiettili usati in occasione di taluni delitti – che esiste un unico filo conduttore tra l'inchiesta "dei 162" sopra richiamata e gli omicidi “politico-mafiosi” dell’epoca (Michele Reina - segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, 9 marzo 1979; Piersanti Mattarella - presidente della Regione Sicilia nelle fila della Democrazia Cristiana, 6 gennaio 1980; Pio La Torre - deputato del Partito Comunista, 30 aprile 1982; Carlo Alberto dalla Chiesa - prefetto di Palermo, 3 settembre 1982). Il tutto nell’ottica di una visione globale e unitaria dei suddetti delitti. Chinnici scopre che le armi utilizzate contro il generale dalla Chiesa erano state adoperate in precedenza per gli altri omicidi e che gli assassinii di Bontate e Inzerillo, nonché il tentato omicidio di Salvatore Contorno, erano stati opera dei clan vincenti (Greco e Riina), che avevano così voluto eliminare i loro concorrenti nel traffico internazionale di droga. Chinnici capisce che tutti i sopra menzionati episodi criminosi presentano un’identica chiave di lettura e si inquadrano nella spietata guerra intrapresa contro le cosche Bontate, Inzerillo e Badalamenti. Per questa ragione vuole effettuare una maxi perizia balistica per verificare gli eventuali collegamenti fra gli omicidi "politici" avvenuti tutti nel giro di soli 3 anni e mezzo, sul presupposto che un unico filo conduttore leghi tali crimini a quelli di più evidente matrice mafiosa, in un intreccio di interessi convergenti. Chinnici è così convinto di questa tesi da ipotizzare la riunione in un solo, grande procedimento del rapporto "dei 162" e degli omicidi dalla Chiesa e La Torre, così da poter dimostrare un'unica matrice mafiosa comune agli omicidi "politici" e a quelli tipicamente mafiosi, entrambi rispondenti a un unico disegno criminoso e caratterizzati da analoghe modalità esecutive;

4) nell’ambito delle indagini relative alla seconda guerra di mafia emerge il coinvolgimento dei cugini Nino e Ignazio Salvo; pertanto entrambi vengono indiziati di associazione mafiosa. Il loro coinvolgimento nelle vicende connesse alla guerra di mafia degli anni ’80 è ancorato a una telefonata intercettata pochi giorni dopo l’omicidio di Salvatore Inzerillo nel corso della quale i predetti - tramite il parente Ignazio Lo Presti, legati allo schieramento dei "moderati" - implorano Tommaso Buscetta di ritornare a Palermo dal Brasile per tentare la riappacificazione delle famiglie e cercare di arginare la guerra di mafia in corso;

5) le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo ricevono un incalzante e decisivo impulso tradottosi in risultati concreti, fra cui l’emissione di numerose ordinanze di rinvio a giudizio (nonostante la Procura chiedesse sempre il proscioglimento) e di mandati di cattura a carico di alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra, fra cui gli esponenti di vertice (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto);


6) sotto la direzione di Rocco Chinnici, non solo vengono istruiti per la prima volta gravi procedimenti penali contro mafiosi di elevato spessore criminale, ma - proprio negli ultimi mesi di vita del giudice - sfociano in severe sentenze di condanna emesse dal Tribunale e dalla Corte d’Assise di Palermo. Tra i mafiosi condannati per associazione a delinquere nel traffico di droga (novità sconvolgente per personaggi che avevano prosperato in lunghi anni di impunità), Giovanni Bontate (fratello di Stefano), Nunzio La Mattina e Rosario Spatola, i cui mandati di cattura erano stati emessi dall'Ufficio di Chinnici;

7) Chinnici partecipa continuamente a convegni, incontri e dibattiti sul tema della legalità anche nelle scuole, trasmettendo ai giovani il suo straordinario impegno civile. In un'intervista rilasciata alla rivista palermitana "Segno" nel 1981, alla domanda "Che fare?" Chinnici risponde:
"La mia fiducia è nelle nuove generazioni. Nel fatto che i giovani – credenti, non credenti, della sinistra, democratici, di nessuna militanza politica – si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. I giovani devono insorgere contro la mafia e la sua droga, con tutte le forze e il coraggio che hanno. Bisogna avere la consapevolezza e il coraggio di mobilitare tutte le forze vive e responsabili della società". Per poi aggiungere: "Noi abbiamo il dovere di reagire in tutti i modi come componenti di questa società. E ciò in particolare devono farlo gli educatori nelle scuole, i padri di famiglia, i politici, i sacerdoti,...".
Ciò non è certo ben visto da Cosa Nostra, considerando che tali iniziative rappresentano l'inaugurazione di un nuovo modo di propaganda antimafia.

Tuttavia Chinnici e il suo limitato gruppo di magistrati antimafia devono affrontare non poche difficoltà:

1) l'atteggiamento blando della Procura palermitana. In un grosso processo di mafia istruito da Chinnici, la Procura chiede il proscioglimento per insufficienza di prove, ma Chinnici rinvia ugualmente a giudizio tutti gli imputati. Al dibattimento il Pm conferma le sue richieste assolutorie e la Corte le accoglie. In un altro grosso processo di mafia, stesso copione: Chinnici rinvia a giudizio gli imputati, in dibattimento la Procura chiede l’assoluzione per insufficienza di prove. Quella volta, però, la Corte condanna, anche se solo per ricettazione di targa rubata;

2) un senso di sfiducia si determina dopo l'uccisione di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo (21 luglio 1979). Costui aveva condotto una strenua battaglia contro i mafiosi e li aveva denunciati per una grossa rapina consumata ai danni della Cassa di Risparmio nel 1979. Un giorno di quello stesso anno Giuliano aveva telefonato, preoccupato, a Chinnici: aveva avuto sentore che a due grossi killer mafiosi estremamente pericolosi si voleva concedere la scarcerazione. Allora Chinnici aveva parlato con il magistrato istruttore del processo, il quale - nonostante avesse una richiesta di scarcerazione (per mancanza di indizi) da parte della Procura - aveva promesso a Chinnici che li avrebbe tenuti in carcere. Peccato che - utilizzando una cartella clinica del carcere - dopo una settimana li avrebbe scarcerati in libertà provvisoria, nonostante ciò fosse impossibile per un’imputazione di “rapina pluriaggravata”. Per questo Chinnici aveva giudicato quest'atto un fatto "estremamente grave che generò perplessità e sfiducia negli organi di polizia";

3) quando il Procuratore Capo di Palermo Gaetano Costa (da solo, contro i suoi sostituti procuratori) firma e convalida 55 arresti a seguito di un'inchiesta su mafia, banche, appalti, attività economiche e droga, la conseguenza è un’eco grandissima. La stampa pubblicizza all’esterno un fatto interno alla Procura, ovvero la diversità di vedute tra Costa e i suoi sostituti. Costa avrebbe voluto dare un volto nuovo alla Procura, rendendone più democratica la gestione: da qui la sua decisione di convocare tutti i magistrati in un’assemblea, dove poi si sarebbero verificati i contrasti. Sorti perchè:

- i sostituti pensano che la mafia sia un’associazione per delinquere qualsiasi, per colpire la quale occorra provare singoli fatti delittuosi;

- Costa invece ritiene che la mafia sia già di per sé un’associazione per delinquere, per cui è sufficiente provare collegamenti e legami tra diversi soggetti per convalidare il loro arresto.

Costa è un magistrato equilibrato, molto prudente, pacato, non certo avventato o emotivo. Compie quell’atto (la convalida degli arresti) dopo aver meditato ed essersi reso conto che andava fatto. Punto. Ma per Palermo è un fatto inedito: è infatti la prima volta che i sostituti mostrino remore e perplessità in un processo di rilevante gravità. Era successo spesso in processi "semplici" (il sostituto non convalida e l’indagato viene scarcerato), mai in procedimenti così importanti e delicati.

Chinnici è consapevole che una tale presa di posizione (convalidare - in solitudine - numerosi mandati di cattura) e la sua pubblicizzazione sui giornali avrebbe comportato serie difficoltà anche al suo ufficio, poiché tutti si sarebbero aspettati la scarcerazione. Invece Falcone - confermando l'impostazione del Procuratore Costa - emette i mandati di cattura. Da quel momento Chinnici riceve la prima telefonata di minacce a casa, poiché si diffonde la voce - infondata - che sia stato Chinnici ad aver imposto a Falcone l'emissione dei mandati di cattura. Sono i primi giorni di giugno del 1980. Chinnici viene svegliato di notte: “che intenzioni ha Lei con i processi di Palermo?”. Da qui altre telefonate. Una – ricevuta a casa e ricordata da Chinnici come “la più brutta” – dice: “il nostro tribunale ha deciso che Lei deve morire e l’ammazzeremo comunque, dovunque Lei si trovi”. Quando Chinnici va da Costa (di cui era amico) per riferirgli il contenuto di quella telefonata, il Procuratore risponde: "in questa città [Palermo, N.d.A.] non c’è da fidarsi di nessuno, non si può più vivere". Chinnici riceve altre minacce, anche per iscritto, dall’America: in una (ricevuta per cartolina postale alla fine del 1981) vengono elencate le beatitudini, del tipo: "beato chi ti farà del male, beato chi parlerà sempre male di te, beato chi ti distruggerà, …". L'uccisione di Costa (6 agosto 1980) traumatizza Chinnici, il quale rimane per 3 giorni sotto shock, nonostante a Palermo si vedano ogni giorno molti morti: Costa era a Palermo da soli 2 anni e viene ucciso quando – presa conoscenza dell’ambiente palermitano – inizia a intraprendere un’azione antimafiosa molto efficace. E’ stato insomma tolto di mezzo per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato;

4) nel settembre/ottobre 1980 - quindi poco dopo l'assassinio di Gaetano Costa - quasi tutti i magistrati della Procura stilano un documento in cui si parla di "enfatizzazione delle misure di sicurezza a garanzia dei magistrati" (cioè le scorte) e di "mitizzazione della mafia". In esso si critica anche l’Ufficio Istruzione retto da Chinnici, per l'assegnazione dei processi solo a determinati magistrati. Anche se tale documento avrebbe dovuto essere trasmesso al Csm, non solo ciò non avviene, ma non se ne sa più nulla. Si verifica un terribile scontro in Procura tra 2/3 sostituti procuratori e tutti gli altri (firmatari del documento). Mentre i servitori fedeli dello Stato perdono la vita e rischiano ogni giorno la pelle, quelle rivendicazioni appaiono sinistre, assurde o - per usare i termini di Chinnici - "retoriche e piene di enfasi";

5) molti non vogliono che Costa prima, Chinnici poi realizzino approfondite indagini bancarie (conti correnti, assegni, libretti di risparmio,…). Il Procuratore Costa – fino a pochi mesi prima di morire - aveva insistito nel chiedere alla Guardia di Finanza indagini approfondite su appalti e attività economiche di Cosa Nostra, ma i finanzieri non le finivano mai. Allora Chinnici deve agire personalmente, in solitudine: è lui che acquisisce tutta la documentazione, convoca i direttori di banca con i documenti che gli servono, sequestra ed emana ordini di esibizione;

6) il rapporto tra l'Ufficio Istruzione di Chinnici e la Procura di Palermo è difficile. Addirittura, all’inizio, non c'è nessuna collaborazione, dal momento che la Procura continua a ritenere i processi istruiti da Chinnici “vacanti”, cioè senza elementi e basati sul nulla. Solo in un secondo momento -  quando in Procura cominciano a rendersi conto che i processi voluti da Chinnici e dalla sua squadra non sono “vuoti” e che i magistrati hanno il dovere di sfruttare al massimo gli elementi probatori disponibili - inizia una valida collaborazione, ma solo con pochi e determinati sostituti procuratori. Un piccolo passo in avanti, se si pensa che prima i Pm erano soliti chiedere il proscioglimento per insufficienza di prove e interrogare gli indagati con mandato di comparizione (non di cattura);

7) i mafiosi conoscono in anticipo le indagini del gruppo di Chinnici, ancor prima dell'emissione dei mandati di cattura. Ciò grazie a canali di informazione su cui l'organizzazione criminale può contare, tra cui le collusioni di alcuni funzionari e impiegati del Palazzo di Giustizia di Palermo. I massimi vertici di Cosa Nostra sono persino al corrente dei conflitti tra la Procura e l'Ufficio Istruzione circa l'emissione dei mandati di cattura;

8) Chinnici è costretto a lavorare in una situazione di estremo disagio, a tal punto da non sapere a chi affidare i processi di mafia. Di fatto - come lui stesso ammette - può contare sull'appoggio di soli 2, 3, 4 giudici (tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), gli unici ritenuti validi nel fare a fondo il proprio dovere. Non avendo quindi a disposizione un numero congruo di magistrati per gestire l'enorme mole di lavoro (ne sarebbero serviti almeno una dozzina), Chinnici è costretto ad affidare a sè medesimo la gestione dei procedimenti antimafia. L'Ufficio Istruzione di Palermo conta solo sulla spiccata professionalità di alcuni magistrati, in un clima di quasi generale indifferenza, il che determina una sensazione di isolamento e una pericolosa sovraesposizione. Le numerose minacce di morte ricevute da Chinnici e da alcuni colleghi lo dimostrano.

Ora, Cosa Nostra - per la prima volta - ha paura e teme per la sua stessa sopravvivenza: quel giudice, Rocco Chinnici, ha rotto drasticamente gli equilibri che per decenni avevano garantito ai boss l'impunità. E' così che le varie faide interne all'organizzazione criminale cessano di fronte al nemico comune: sia i Corleonesi usciti vincitori dalla seconda guerra di mafia, sia i "moderati" sconfitti hanno un imminente interesse a eliminare quel giudice ficcanaso. Si realizza una perfetta comunione di intenti all'interno di Cosa Nostra: in gioco c'è la vita dell'intera organizzazione mafiosa. E' pur vero che la maggiore responsabilità debba essere attribuita ai Corleonesi, visto che nel luglio del 1983 sono loro a controllare l'intera Commissione Provinciale di Palermo (alla quale compete in via collegiale la sentenza di morte).
Nonostante la mafia tenti di "avvicinare" Chinnici per indurlo a più miti consigli, egli si rivela solidamente incorruttibile e inavvicinabile, pertanto l'unico modo che Cosa Nostra ha per fermarlo è ucciderlo. In tal modo i mafiosi avrebbero ottenuto più risultati:

- eliminare un magistrato che finalmente aveva voluto combattere la mafia con incisività e determinazione;

- vendicarsi delle numerose indagini compiute e prevenirne altre;

- lanciare un avvertimento a tutti gli altri giudici che ne avessero proseguito l'opera (Falcone e Borsellino in testa, già all'epoca minacciati di morte);

- stroncare ogni tentativo delle Istituzioni di reprimere duramente gli interessi della mafia (tra cui il traffico di droga);

- inaugurare una strategia terroristica finalizzata a creare un clima diffuso di intimidazione e a scoraggiare qualsiasi ulteriore azione di contrasto.

Non è allora un caso se la mafia inizi a progettare l'omicidio di Chinnici già a partire dall'estate 1982 (cioè un anno prima della strage), servendosi anche di frequenti pedinamenti ai suoi danni. E non è un caso se pochi giorni prima di morire Chinnici abbia detto: "C’è la mafia che spara, la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi, c’è l’alta finanza legata al potere politico. Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati".
Ma perchè non ucciderlo sparando colpi di arma da fuoco come era sempre stato fatto fino ad allora? Perchè un atto terroristico?
Si tratta di una scelta inevitabile per Cosa nostra, dal momento che l’apparato di sicurezza messo in campo per salvaguardare Chinnici è tale da impedire un avvicinamento degli assassini. Ne sarebbe quasi certamente nato un conflitto a fuoco con i membri della scorta. Troppo rischioso. Si opta così per l’autobomba, anche per ottenere un effetto intimidatorio maggiore. E' verosimile che la tecnica sia stata “importata” dalla camorra napoletana, con cui i mafiosi palermitani avevano rapporti: Vincenzo Casillo, il braccio destro del boss Raffaele Cutolo, era stato ucciso il 29 gennaio 1983 proprio con un’autobomba a Roma mentre era latitante.
I mafiosi usano un telecomando a vista, azionato da un camion parcheggiato sul lato della via Pipitone Federico opposto a quello ove si trova l’abitazione di Chinnici e la Fiat 126 imbottita di tritolo. Il furgone non solo dista 87 metri dal portone di casa Chinnici, ma da esso si ha un’ottima visibilità sull’intera via. Il camion viene completamente ignorato dai carabinieri di scorta, concentrati sulle immediate vicinanze del portone di casa e sulla figura del magistrato. Si presta attenzione (ed è inevitabile che così sia, data l’assenza di precedenti diversi) all’arrivo di auto o moto che, avvicinatisi a Chinnici, avrebbero potuto far fuoco. Come avrebbe poi rivelato il maresciallo del Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Palermo, Ignazio Pecoraro, che la mattina della stage supporta la scorta:
"Ci aspettavamo di tutto tranne che un fatto simile ; cioè si aspettava la classica fucilata , la raffica. Non pensavamo mai a una cosa simile. Il servizio nostro era volto a prevenire la fucilata , la raffica di mitra, la macchina che passa e spara . Siccome non si era mai verificato fino ad allora il fatto di avere già la macchina là ferma, carica, con la bomba sopra… per noi era molto improbabile".
Niente bonifiche, niente controlli alle vetture parcheggiate, niente divieti di sosta: solo il blocco del traffico nel momento in cui Chinnici è solito uscire di casa. Peccato che Giovanni Brusca parcheggi la 126 verde di fronte la casa di Chinnici prima delle 7 di mattina (più di un’ora prima che il magistrato esca per recarsi al lavoro) e che allo stesso tempo Giovan Battista Ferrante (boss del mandamento di San Lorenzo) parcheggi il camion lì appresso. Il pulsante di attivazione viene premuto da un fedelissimo di Salvatore Riina, Antonino Madonia, figlio del capo-mandamento di Resuttana, nel cui territorio è compresa la via Pipitone Federico. E’ lo stesso Madonia che (arrestato il 10 gennaio 1971 grazie a un mandato di cattura di Chinnici per detenzione abusiva di esplosivo, associazione per delinquere e strage) la sera del 5 dicembre 1982 -quasi 8 mesi prima di premere il fatidico pulsante - si trovava all’interno dello stabile ove risiedeva la famiglia Chinnici. Il giudice, subito informato da un amico, si era molto preoccupato.
Non è certo un caso se tra i condannati in via definitiva per la morte di Chinnici ci siano i boss su cui il giudice aveva indagato e verso i quali aveva emesso numerosi mandati di cattura: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Stefano Ganci, Calogero Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Antonino Madonia, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante.

      Il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi

Una delle molte, grandi lezioni che il giudice Chinnici ci ha lasciato è la determinazione nel proseguire sempre le giuste battaglie e la lotta alla criminalità. Pur perfettamente consapevole degli enormi rischi cui andava incontro (basta leggere il suo diario personale per rendersene conto), non ha mai arretrato, non si è mai lasciato corrompere, proseguendo instancabilmente il suo lavoro di onesto, preparato e tenace uomo delle Istituzioni, fino al sacrificio della propria stessa vita. In una delle sue ultime interviste aveva detto: 
"La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e - anche se cammino con la scorta - so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce nè a me, nè agli altri giudici di continuare a lavorare. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo, battagliero. Gente con i piedi per terra, attenta, accurata".
Come un magistrato di nome Rocco.

In primo piano - da sinistra a destra - Antonino Cassarà, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici
(© Franco Zecchin). 
Tutti assassinati da Cosa Nostra tra il 1983 e il 1992.

giovedì 19 luglio 2012

LE SUE IDEE NON MORIRANNO MAI!
PAOLO E' VIVO E LOTTA INSIEME A NOI!

"Vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza, nel provvedimento del giudice, e poi - successivamente - nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Oltre ai giudizi del giudice esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenze che da certi fatti accertati trae o dovrebbe trarre il mondo politico. Esistono anche i giudizi disciplinari. [...]
Ora, l'equivoco su cui spesso si gioca è questo; si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l'organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va perchè la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire: be', ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire che quest'uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. 
Questi giudizi non sono stati tratti perchè ci si è nascosti dietro lo "schermo" della sentenza, si è detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, ma non è stata mai condannata perchè non ci sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia e non soltanto a essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato?".

Lezione di Paolo Borsellino agli studenti dell'Istituto Professionale di Stato per il Commercio "G.A. Remondini" di Bassano del Grappa, 26 gennaio 1989.

                    Per ingrandire l'immagine, clicca su "YouTube" in basso a destra 
                       (le parole sopra citate iniziano a partire dal minuto 1:14:55)

LICENZIAMENTI ILLEGALI

Spesso l'imprenditore - come provvedimento disciplinare - licenzia il dipendente contestualmente alla notifica degli addebiti di colpa. 
La Cassazione (sezione lavoro, sentenza 16 luglio 2012, n. 12127) ha ricordato che ciò è semplicemente illegale. Lo Statuto dei Lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) parla chiaro: per poter adottare un provvedimento disciplinare - incluso il licenziamento - l'imprenditore deve prima contestare le colpe o le manchevolezze al dipendente e poi sentire quest'ultimo a sua difesa. Accusare e insieme licenziare viola pertanto la legge e il diritto di difesa del lavoratore, pertanto il licenziamento è nullo e l'operaio deve essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi del tanto vituperato art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Una piccola (ma importante) lezione di diritto a tutti coloro che intendono minare le basi dei diritti di chi lavora.

domenica 15 luglio 2012



STORIA DI QUATTRO ASSASSINI IN DIVISA

                          Federico Aldrovandi prima e dopo l'incontro con la Polizia

Roma. Giovedì 21 giugno 2012. Ore 19.20. La IV sezione penale della Cassazione conferma in via definitiva le sentenze del Tribunale di Ferrara (6 luglio 2009) e della Corte d'Appello di Bologna (10 giugno 2011) con cui sono stati condannati quattro poliziotti della Questura ferrarese - Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri - a 3 anni e 6 mesi di carcere per la morte di Federico Aldrovandi.
In attesa di conoscere le motivazioni della Suprema Corte, è possibile rileggere quelle della sentenza di 2° grado - ormai passata in giudicato - che ha reso pregiudicati quattro appartenenti alle forze dell'ordine per eccesso colposo nell’adempimento del dovere (agendo nell'esercizio delle loro funzioni, hanno operato andando oltre i limiti del legittimo intervento) e cooperazione in omicidio colposo (hanno agito con violenza in maniera lesiva dell'integrità fisica di Federico, fino ad averne causato la morte).

Federico Aldrovandi è uno studente di 18 anni, incensurato, di condotta regolare, membro di una famiglia di persone perbene, ben educato, con i problemi esistenziali tipici di ogni diciottenne. All'alba del 25 settembre 2005, reduce da una serata in discoteca trascorsa in compagnia di tre amici, viene lasciato - come da sua richiesta - al punto di ritrovo da cui erano partiti, così da tornare a casa a piedi. Giunto al parco di via Ippodromo a Ferrara, pochi minuti dopo le 6 di mattina subisce una violenta colluttazione fisica con quattro poliziotti, da cui esce senza vita. Mentre Federico è a terra, gli agenti in divisa si rendono responsabili di una numerosa serie di percosse e violenze, del tutto gratuite e ingiustificate: un tremendo colpo ai genitali con un manganello o un calcio, varie lesioni sul corpo (che non hanno alcuna connessione con l'ammanettamento e l'immobilizzazione), trascinamento a terra per i capelli, ferita al capo da ricondurre verosimilmente a un colpo di manganello (con relativo edema cerebrale). Per esplicitare l'intensità, la forza e la violenza del pestaggio messo in atto, il giudice di 1° grado ha dovuto occupare ben 10 pagine, nelle quali descrive le lesioni arrecate ad Aldrovandi nel corso della prolungata e furiosa azione di violenza dei poliziotti, caratterizzata da calci e manganellate e proseguita  anche dopo l'ammanettamento e l'immobilizzazione a terra di Federico. Per di più, postisi intorno al ragazzo, i poliziotti lo tengono bloccato a terra, posizionandosi uno sui piedi, uno sulle cosce, un altro sulla parte superiore e l'ultimo in movimento libero. Insomma, gli si siedono sopra. Federico scalcia, si agita, cerca inutilmente di liberarsi, anche nel tentativo di non soffocare. E giù con le botte, tali da provocare la rottura di due manganelli. Federico, sempre a terra, soffoca sotto il peso di due agenti postisi all'altezza del petto e dello stomaco, subendo infine un colpo fatale al cuore, compresso dalla massa corporea delle guardie.
Ecco dunque come può morire in Italia uno studente di 18 anni: ammanettato, in posizione prona, col viso schiacciato a terra, sanguinante dalla bocca e dal naso, letteralmente schiacciato da uomini delle istituzioni.
L'intervento della polizia - totalmente estraneo a qualunque protocollo di sicurezza - è determinante per la morte di Federico, causata da una prolungata e violenta compressione del torace tale da aver provocato lo schiacciamento del cuore tra le strutture osteo-cartilaginee della colonna vertebrale e dello sterno, seguita dalla rottura di vasi intramiocardici e da due ematomi - contrapposti - sulle pareti anteriore e posteriore del ventricolo sinistro. Il tutto - lo si ripete nuovamente - mentre è a terra, immobilizzato e ammanettato dietro la schiena.

Ora, i giudici sottolineano alcuni aspetti:

- Federico si trovava in una condizione di personale disagio per gli effetti di una serata in discoteca, ma non stava compiendo nulla di illegale, non stava per realizzare alcun delitto, non stava arrecando alcun disturbo o pericolo per la quiete pubblica, nè stava provocando alcuna situazione di allarme sociale dovuta ad atteggiamenti aggressivi. Doveva solo essere calmato e trattato dal punto di vista sanitario, non essendo pericoloso per la sicurezza pubblica ma solo per se stesso;

- Federico era un abituale assuntore di sostanze stupefacenti, ma occasionale e controllato. Era un mero consumatore, senza mai essere entrato nella catena dello spaccio. Tuttavia la storia personale, fisica, morale e clinica di Federico esclude che potesse sfociare in un'abnorme aggressività nei confronti dei poliziotti e che potesse essere portatore di una qualsiasi storia di patologia psichiatrica o legata all'abuso di stupefacenti. Per di più, dagli accertamenti eseguiti e dal confronto tra tossicologi, si evince l'irrilevanza delle sostanze stupefacenti assunte da Federico come fattori diretti di morte o anche solo concausali. Manca persino un qualsivoglia riscontro su possibili effetti di tali sostanze assunte come causa di innesco di una condizione di agitazione delirante. Federico era un soggetto sano, senza scompensi psichiatrici, con minime e modestissime (quasi irrilevanti) quantità di stupefacenti assunte. Non è un caso, allora, se l'agitazione psico-motoria e l'aggressività - ridotta - di Federico abbiano avuto inizio solo a seguito dell'intervento violento e sconsiderato dei poliziotti, essendo cioè solo il frutto delle violenze subìte;

- totalmente infondata e priva di riscontro scientifico (alla luce delle analisi tossicologiche) l’ipotesi della morte per assunzione di stupefacenti. Il dato tossicologico è infatti troppo modesto. Aldrovandi è morto unicamente per la violenta, energica e pesante compressione esercitata dai poliziotti su busto e volto, schiacciati sia manualmente, sia dal peso del corpo di persone sedute o sdraiate sopra il giovane. Federico ha dunque perso la vita solo a causa della condotta colposa e sconsiderata di quattro membri delle forze dell'ordine. La sola lecita conclusione da trarre circa l'assunzione di sostanze stupefacenti da parte di Federico è la seguente: il ragazzo era in uno stato di alterazione e di scarsa lucidità, tale da poter aver causato una reazione abnorme a un eventuale approccio vissuto come arbitrario da parte dei poliziotti;

- le condotte degli imputati sono state negligenti, per aver violato le seguenti regole:

1) lo scontro fisico violento va assunto come extrema ratio in una situazione di straordinaria necessità;
2) vi sono sempre misure alternative, come la richiesta di ausilio da parte di personale sanitario;
3) bisogna usare la forza in maniera proporzionata e graduale, tale da non produrre lesioni o pericoli (salvo casi di necessità e legittima difesa);
4) la situazione non deve sfuggire di mano, trasformando un intervento di polizia in una lotta selvaggia;
5) si può (eventualmente) ricorrere alla violenza solo per scopi difensivi;
6) l'arresto di chi opponga resistenza non giustifica mai uno scontro fisico che metta in pericolo l'incolumità del soggetto. Nei casi ove si profili il rischio di una degenerazione dell'intervento, gli agenti devono limitarsi a circondare e controllare l'individuo, impedendogli di nuocere a sè e agli altri e procedere all'arresto solo quando non ci sia pericolo di violento scontro e la resistenza sia cessata, essendosi il soggetto reso conto di non avere alternative;
7) non esercitare mai pressioni su dorso e tronco per non diminuire la capacità di respirazione;
8) una volta ammanettato, l'individuo non può più considerarsi pericoloso; pertanto deve essere subito rivoltato in posizione supina e aiutato a rialzarsi;
9) il manganello va usato in via eccezionale e solo per scopi difensivi;
10) la tutela dell'incolumità del resistente deve sempre prevalere su ogni altra necessità di minor rilevanza. 

Infatti, i quattro poliziotti:

1) hanno ingaggiato una violenta e cruenta lotta con Aldrovandi, non giustificata dal numero di agenti e dalla mancanza di pericolosità del soggetto (ragazzo giovane senza alcun precedente, inoffensivo, non violento e di indole mite, in ogni caso contenibile con l’impiego difensivo del manganello). La colluttazione sarebbe stata evitata con un approccio dialogico e paziente, con l'intervento dei sanitari, con una tattica attendista che facesse sbollire la rabbia e l’agitazione del ragazzo, chiarendo l’assenza di volontà offensiva e violenta da parte degli agenti, in modo da ridimensionare la frustrazione del ragazzo; 
2) hanno attuato un intervento violento e squilibrato, idoneo ad accrescere la rabbiosa reazione difensiva di Aldrovandi, aggredito e colpito da una grandinata di colpi di manganello. Hanno così innalzato il livello di violenza. Peraltro, va evidenziata una preponderante azione violenta degli agenti rispetto alla resistenza di Federico, in gran parte ascrivibile alla necessità di reagire a una condizione di restrizione asfittica;
3) hanno proceduto all’arresto e all’immobilizzazione nonostante fosse evidente che una tale operazione avrebbe comportato rischi per l’incolumità personale del ragazzo; 
4) hanno sbagliato a valutare:
- le circostanze autorizzanti l’arresto, in una situazione ove non era obbligatorio procedervi;
- la pericolosità del soggetto;
- la gravità della situazione, in gran parte derivante dall’incapacità degli agenti di considerare lo stato di alterazione mentale del ragazzo.
Ciò avrebbe dovuto indurli a trasformare il loro intervento da atto di ordine pubblico ad azione di tutela sanitaria di un soggetto bisognoso di aiuto.
Tali errori sono stati mossi da un pregiudizio nei confronti di Federico, considerato come un nemico da vincere;
5) hanno prolungato la colluttazione per lunghi minuti e praticato in questo lungo arco temporale una serie di atti violenti eccessivi, incongrui e non necessari, concentratisi da ultimo nella violenta, prolungata compressione al suolo di Aldrovandi;
6) non solo non hanno interrotto l’azione nel momento in cui era chiaro che si stesse trasformando in un autentico pestaggio, ma hanno accettato quella violenza gratuita e assolutamente vietata, quasi volessero “punire” Aldrovandi. Hanno pertanto messo in pratica un approccio improntato alla mera repressione con modalità gratuitamente violente volte a sopraffare un avversario;
7) esercitando violente pressioni sul tronco e sul dorso di Federico, hanno creato un pericoloso rischio di asfissia, innescando il meccanismo causale della morte;
8) non hanno eseguito rapidamente l’ammanettamento e non hanno rivoltato il giovane per liberarne il respiro;
9) hanno usato il manganello in maniera offensiva (non difensiva) e sproporzionata, con cinica indifferenza e colpevole imprudenza.

I poliziotti hanno quindi posto in essere per colpa una situazione di rischio e di pericolo evitabili, in contrasto con le buone norme d’azione che avrebbero dovuto attuare, contribuendo così a determinare per colpa l’evento, evidenziando gravi limiti di professionalità e inadeguata preparazione. Sarebbe invece stato loro dovere contenere la violenza e immobilizzare il soggetto senza fargli correre alcun rischio di asfissia o traumi derivanti dal prolungarsi di una lotta;

- Federico non è morto per le lesioni inferte dai poliziotti, poichè nessuna di esse ha inciso sulla morte;

- i quattro poliziotti hanno concordemente messo in atto un comportamento ambiguo, reticente e menzognero per coprire le proprie responsabilità. Fin dalle prime ore successive all’uccisione di Aldrovandi, i responsabili della Questura di Ferrara e gli imputati si sono dedicati a un'attività di falsificazione e distorsione delle prove, nonostante i pubblici ufficiali debbano essere portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale rispetto ad un imputato “comune”. Non solo non hanno portato alcun contributo di verità, ma hanno messo in pratica una strategia manipolatoria delle prove ordita sin dalle prime ore dell'assassinio;

- nonostante l’incensuratezza sia inevitabilmente dovuta per qualsiasi agente di Polizia e nonostante la  condotta di quattro di loro abbia gettato discredito all'intero corpo di appartenenza, gli assassini di Federico Aldrovandi - Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri - continuano a mantenere la divisa da poliziotto. Quella stessa divisa che hanno sporcato con il sangue di Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni ucciso brutalmente senza un perchè.

P.s. All'indirizzo web http://www.giustiziaperaldro.it/2012/06/29/giustizia-per-aldro/ è possibile firmare un appello per chiedere che i quattro poliziotti assassini vengano estromessi dalla Polizia di Stato, che i condannati in via definitiva siano sempre allontanati dalle forze dell'ordine, che vengano previste modalità di riconoscimento per gli appartenenti alle forze dell'ordine (magari con un numero identificativo sulla divisa o sui caschi) e che sia introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura.
Io ho firmato. E voi?

domenica 1 luglio 2012

IL MONSIGNORE POSSEDUTO

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L'intervento sopra riportato di monsignor Andrea Gemma è andato in onda il 9 giugno scorso sul canale tv della Conferenza Episcopale Italiana (Tv2000), nel corso del programma "Vade retro".
A furia di scacciare il demonio, temo che il maligno abbia preso possesso del corpo dell'uomo di Chiesa.
Urge esorcista: vade retro, Satana!