venerdì 25 maggio 2012

PERDERSI IN UN CATINO (CON ANNESSO BUCO NELL'ACQUA)

Vi ricordate l'editoriale firmato dal direttore di "Libero" Maurizio Belpietro intitolato "Su Gianfranco iniziano a girare strane voci", pubblicato sulla prima pagina del quotidiano il 27 dicembre 2010?
Breve riassunto delle puntate precedenti.
Tale Emanuele Catino, per dimostrare quanto fosse facile in Italia manipolare i mezzi di "informazione", aveva deciso di inventarsi di sana pianta un falso progetto di attentato ai danni del Presidente della Camera Gianfranco Fini, curato da persone vicine alla criminalità pugliese, in modo da far ricadere la colpa sull'ex alleato Berlusconi. A quale giornale aveva pensato di rivolgersi Catino per far pubblicare la burla e provare così l'insignificanza di una larghissima parte del "giornalismo" nostrano? Naturalmente a "Libero" e al suo direttore Maurizio Belpietro, a cui aveva spifferato le sue ipotesi fantasiose. Il "giornalista" non ci aveva pensato su troppo: aveva pubblicato la falsa notizia, senza aver prima compiuto alcun riscontro nè sulla veridicità della stessa, nè sull'attendibilità della fonte. Non solo, ma si era pure guardato bene dall'avvertire le autorità (giudiziarie o di pubblica sicurezza). Lui è fatto così: prende per oro colato tutto quello che uno sconosciuto signore gli va a comunicare, annuncia urbi et orbi il pericolo (inesistente) che alcuni boss pugliesi stiano per commettere un attentato terroristico o eversivo in danno di un'alta personalità istituzionale e suscita un serio allarme presso tre procure della Repubblica - Milano, Bari e Andria - le quali avevano iscritto procedimenti penali per accertare eventuali responsabilità sul progetto di attentato, disponendo diverse attività di indagine anche per prevenirne il pericolo.
Scoperta la bufala colossale rifilata a Belpietro e da questi pubblicata in prima pagina con grande risalto, la Procura di Milano aveva chiesto al Gip di emanare un decreto penale di condanna nei confronti del "giornalista" per "procurato allarme presso l'autorità". Tuttavia il giudice, rispondendo picche, aveva assolto il direttore perchè il fatto non costituiva reato (sentenza n. 5319/11 del 16 maggio 2011).
Secondo il Gip, infatti, Belpietro aveva agito in buona fede; era solo stato strumentalizzato e ingannato da un Catino qualsiasi. Addirittura, per il Gip milanese, Belpietro aveva verificato la fondatezza della notizia e controllato la fonte, prendendone nientemeno che generalità e recapito. Deve essere stata una scena del tipo: "caro signore, come ha detto che si chiama? Catino? Nome? Emanuele. Mi può dire dove abita, quanti anni ha e fornire un suo recapito telefonico? Grazie, le farò sapere". Ovviamente - sempre secondo il Gip - Belpietro, da grande giornalista quale notoriamente è, aveva ritenuto il racconto "astrattamente plausibile". Del resto, si chiede il giudice, quale altra verifica avrebbe potuto compiere un giornalista di spessore come Belpietro? Anche se nell'editoriale aveva prudentemente espresso dubbi sulla veridicità o meno della notizia (scrivendo di non essere in grado di stabilire se fosse fondata o inventata), non c'era alcun divieto di pubblicarla. Anzi: la pubblicazione rientrava nel pieno diritto di cronaca e di informazione costituzionalmente garantito. Ecco, la Costituzione può essere rispettata anche inventandosi balle assurde e clamorose. Per il Gip, dunque, nessuna colpa: il direttore era stato indotto in errore da un Catino, il quale - con l'inganno - lo aveva convinto a pubblicare una bufala colossale. Del resto, capita ai migliori segugi dell'"informazione"!
La Procura milanese, però, non si era rassegnata e aveva presentato ricorso in Cassazione.
Ora la prima sezione penale della Suprema Corte, depositando le motivazioni della sua decisione, non solo ha accolto le tesi dei Pm in quanto fondate, ma ha bollato la pronuncia assolutoria come "giuridicamente errata" e "del tutto illogica". Nella sentenza (22 maggio 2012, n. 19367), è stato sancito che Belpietro non era stato ingannato da nessuno proprio perchè si era pubblicamente interrogato sulla veridicità o meno di quanto appreso. Ciò sia all'inizio dell'editoriale ("Girano strane voci a proposito di Fini, non so se abbiano fondamento, se si tratti di invenzioni oppure, peggio, di trappole per trarci in inganno"), sia dopo aver riportato la falsa notizia ("Vero, falso? Non lo so. Chi mi ha spifferato il piano non pareva matto"). Dunque, Belpietro non era affatto convinto di pubblicare una notizia vera. Pertanto, ha commesso il reato di "procurato allarme presso l'autorità" per una colpa "del tutto evidente": un giornalista - prima di pubblicare una notizia - ha sempre l'obbligo professionale di accertarne la veridicità, tanto più se essa sia molto grave e idonea a suscitare allarme nell'opinione pubblica e nelle autorità preposte alla tutela dell'ordine pubblico. Se una notizia non è verificabile - soprattutto se palesemente allarmistica, come nel caso di specie - non deve essere pubblicata. Punto.
Annullando così il verdetto assolutorio del Gip (senza rinvio, per non obbligare il giudice a pronunciare una nuova sentenza), la Cassazione ha di fatto ordinato di condannare Belpietro per aver annunciato il pericolo inesistente di un attentato alla terza carica dello Stato, suscitando un grave allarme presso le autorità (rischia solo una multa compresa tra i 10 e i 516 euro).
Insomma, per dirla alla Belpietro: girano chiarissime sentenze a proposito del direttore di "Libero", di sicuro fondamento, visto che - essendo un pronunciamento emesso da un collegio giudicante - non si tratta nè di invenzioni, nè di trappole per trarci in inganno. La condanna di Belpietro è vera. I giudici che l'hanno sancita non sono matti, anche se la musa ispiratrice del nostro novello Sherlock Holmes usa definirli "doppiamente matti""mentalmente disturbati""affetti da turbe psichiche" e "antropologicamente diversi dal resto della razza umana".

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