martedì 17 gennaio 2012

CHI LO DICE AL VATICANO?

Tempo fa in Italia si è molto dibattuto sulla necessità di introdurre nell'ordinamento penale un'aggravante di omofobia e, più in generale, di discriminazione legata all’orientamento sessuale. In particolare, è stata la deputata del Pd Anna Paola Concia (lesbica dichiarata) a perseguire tenacemente una simile battaglia politica (a proposito: quando anche gli eterosessuali si batteranno in prima linea per difendere i sacrosanti diritti degli omosessuali?). Ovviamente non se ne è fatto nulla (altrimenti chi l'avrebbe detto al Vaticano?). 
Tuttavia, come sempre più spesso accade nel nostro Paese, le buone notizie giungono dalla magistratura. Infatti il giudice Massimo Tomassini del Tribunale di Trieste, attraverso un'ordinanza del 2 dicembre scorso, ha stabilito che esiste già l'aggravante per discriminazioni legate all'orientamento sessuale: è riconosciuta dall’art. 3 c. 1 della legge Mancino (la 205/93). Il provvedimento fa notizia (?) poiché si basa su una valutazione in punto di diritto totalmente nuova, nonostante la relativa disposizione legislativa sia in vigore da quasi 19 anni.
La norma in questione prevede un’aggravante per tutti i reati non punibili con l'ergastolo commessi "per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso". Compiendo un’analisi squisitamente linguistica, il giudice triestino ha notato che i concetti di "discriminazione" e "odio" (già differenti di per sé) sono separati dalla congiunzione avversativa "o", pertanto gli aggettivi seguenti al termine "odio" (cioè "etnico", "nazionale", "razziale" e "religioso") non si possono riferire anche alla "discriminazione", altrimenti avrebbero dovuto essere declinati al plurale. Inoltre tale interpretazione trova conferma nella loro esclusiva declinazione al maschile, in evidente riferimento all'unico sostantivo di tal genere (cioè "odio"). La conclusione tratta è consequenziale: l'”odio” può essere contestato solo se caratterizzato da motivi etnici, nazionali, razziali o religiosi (dunque, non sessuali), mentre la “discriminazione”, non essendo legata a tali specifiche caratteristiche, comprende ogni forma discriminatoria nei confronti di chiunque. 
Ecco quindi integrata l’aggravante sessuale. Tomassini ricorda che scopo della legge Mancino è punire con maggiore severità ogni comportamento finalizzato a creare “discriminazione” (cioè disparità iniqua di trattamento) oppure “odio”. Tuttavia è solo in riferimento a quest’ultimo che il Parlamento ha voluto fornire specificazioni ben precise (legate solo all’etnia, alla nazionalità, alla razza o alla religione), non richieste invece per la “discriminazione”. Essa può dunque autonomamente sussistere in una serie indeterminata (e "forse indeterminabile”, scrive Tomassini) di eventi di varia natura, anche sessuale.
Ad esempio, dire "frocio bastardo" rappresenta di certo un’offesa legata a un sentimento d’odio riservato a una persona omosessuale, ma non è penalmente rilevante (lo sarebbe solo se avesse riguardato l'etnia, la nazionalità, la razza o la religione).
Sono invece soggette all’aggravante ex art. 3 c. 1 della legge Mancino le minacce rivolte con espressioni come quelle contestate nella vicenda posta al vaglio del Tribunale friulano: "guardati alle spalle: sarai il primo frocio dell'università a pagarla per lo schifo che fai. Una di queste sere ti prendiamo e te ne diamo tante che quando abbiamo finito non piacerai più neanche ai tuoi amici succhia cazzi! Tu e quelli del tuo gruppo uguali, ma froci verrete eliminati tutti".
In questo caso emerge una differenziazione (cioè una discriminazione) che tocca non solo il singolo soggetto, bensì un'intera categoria di persone accomunate dal medesimo orientamento sessuale. Poiché la legge Mancino tutela non il singolo individuo, ma un'ampia categoria di persone vittima di un reato aggravato dalla finalità discriminatoria, non solo l’aggravante di cui all’art. 3 c. 1 va riconosciuta anche nei casi di omofobia o legati all’orientamento sessuale, ma i magistrati devono inevitabilmente procedere d’ufficio (senza avere la necessità di richiedere la denuncia della vittima per poter procedere penalmente), poiché l'interesse a reprimere tali condotte discriminatorie non è tanto della vittima, quanto dello Stato.
E adesso chi lo dice al Vaticano? 

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