domenica 9 dicembre 2012

CARO NONNO NINO

Antonino Caponnetto
Caro nonno Nino,
il giorno in cui ci hai lasciato, il 6 dicembre di dieci anni fa, abbiamo perso una guida saggia e affettuosa, la cui partenza ha provocato e provoca tuttora un profondo senso di solitudine. 
Nascesti a Caltanissetta il 5 settembre 1920, anche se la tua famiglia di origini catanesi lasciò la Sicilia quando avevi solo pochi mesi di vita. Andasti a vivere tra il Veneto e la Lombardia, poi - compiuti i tuoi primi 10 anni - i tuoi si trasferirono a Pistoia. 
Dopo esserti laureato in giurisprudenza a Firenze, nel 1954 vincesti il concorso in magistratura. Il tuo primo incarico fu quello di pretore a Prato.
Erano gli anni in cui mentre ti formavi come giudice e come uomo, contemporaneamente si costituiva anche la neonata Repubblica italiana. Dalle macerie - morali e materiali - ereditate dagli orrori del ventennio fascista e del secondo conflitto mondiale era nata la nostra Costituzione, da te ammirevolmente amata e strenuamente difesa. Nonostante essa avesse contemplato la nascita di una Corte Costituzionale che giudicasse "sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi" (art. 134), avremmo dovuto attendere l'approvazione della legge 11 marzo 1953, n. 87 affinchè lo Stato introducesse le "norme sulla costituzione e sul funzionamento" della Consulta.
A quel tempo fosti chiamato a emettere sentenza - tra i diversi casi sottoposti al tuo giudizio - in due processi penali, i cui imputati erano accusati di aver violato l'art. 113 del Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza), secondo il quale era necessaria la licenza dell'autorità di pubblica sicurezza per distribuire, mettere in circolazione o affiggere in luogo pubblico scritti o disegni e fare uso di mezzi luminosi o acustici per comunicazione al pubblico.
Da autentica persona democratica e civile, eri convinto che la norma fascista contrastasse con l'art. 21 della Costituzione repubblicana (secondo il quale "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione" e "la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure"). Per questo motivo, pur essendosi costituita la Corte Costituzionale soltanto da pochissimi giorni (i  giudici avevano prestato giuramento il 15 dicembre 1955, mentre il 23 dicembre avevano eletto Enrico De Nicola - già primo Presidente della Repubblica dal 1946 al 1948 - quale primo Presidente della Corte), il 27 dicembre 1955 emanasti due ordinanze (una per ciascun processo) con cui sospendesti il giudizio per rimettere la questione di legittimità costituzionale alla neonata Consulta.  
Nonostante la tua tenera età (avevi solo 35 anni) e fossi in magistratura da appena un anno, fosti il primo magistrato italiano a rivolgersi alla Corte Costituzionale, anche se nella medesima controversia avrebbero poi seguito il tuo esempio altri 25 giudici.
Le tue argomentazioni furono avversate dall'Avvocatura dello Stato (che rappresentava il Presidente del Consiglio democristiano Antonio Segni), la quale sostenne che la Corte non potesse pronunciarsi sulle leggi emanate prima dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e che - in ogni caso - la norma fascista fosse legittima.
La prima, storica sentenza della Corte Costituzionale (14 giugno 1956, n. 1) smentì clamorosamente le tesi del capo del governo, accogliendo invece le tue e quelle - omologhe - di tutti gli altri magistrati.
La Consulta, infatti, non solo si dichiarò competente a vagliare la legittimità delle leggi precedenti all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana (con la motivazione secondo la quale la Corte è chiamata a giudicare "le leggi" senza alcuna distinzione e le norme costituzionali prevalgono sempre sulle leggi ordinarie), ma - entrando nel merito della questione da te sottoposta - dichiarò incostituzionale la disposizione fascista, in quanto lesiva del diritto di libera manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 della Costituzione. 
Esattamente ciò che tu auspicavi.
Il ragionamento della Corte fu semplice. I poteri conferiti all'Autorità di pubblica sicurezza dall'art. 113 del Regio Decreto del 1931 erano discrezionali e illimitati, dunque il diritto di espressione dipendeva dalla concessione di un'autorità non soggetta ad alcun vincolo. Concedere o negare un'autorizzazione in base all'uso di poteri indeterminati e discrezionali, indipendentemente dai fini di tutelare la tranquillità pubblica e di prevenire la commissione di reati, poteva dunque significare consentire o impedire la libera manifestazione del pensiero. D'altra parte, le attività di polizia devono essere delineate e contenute entro i confini di una sfera di applicazione che non può di certo essere arbitraria.
Un significativo riconoscimento all'importanza di quel primo, importante verdetto della Corte provenne dalle parole di Piero Calamandrei, uno dei membri di quell'Assemblea Costituente che in soli 18 mesi (dal 25 giugno 1946 al 22 dicembre 1947) aveva pensato, scritto e approvato la nostra bellissima Carta fondamentale: "Questa prima decisione serve a consolidare la democrazia più che mille comizi di una campagna elettorale” (Calamandrei, del resto, aveva partecipato alla discussione presso la Consulta in qualità di avvocato di una persona imputata a Mantova per la violazione del medesimo Regio Decreto n. 773/31).
Fu la tua prima, grande soddisfazione.
Per i successivi 27 anni conducesti senza clamori il tuo ruolo giurisdizionale, fino a ricoprire l'incarico di sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello di Firenze. 
Poi successe qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la tua vita e quella di un'intero Paese.


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Il 29 luglio 1983 la mafia palermitana fece saltare in aria il giudice Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione Procedimenti Penali del Tribunale di Palermo, dopo che persino il suo predecessore - il giudice Cesare Terranova - era stato assassinato dai sicari mafiosi il 25 settembre 1979.
Sconvolto dalle immagini di quella terribile strage, sentisti dentro di te il richiamo della tua terra d'origine (che di fatto non avevi mai conosciuto) e un profondo senso del dovere, quella non comune sensazione di dover fare a tutti i costi qualcosa per il bene del proprio Paese. Conoscevi ben poco di mafia, non te ne eri mai occupato da magistrato. Saresti potuto restare a Firenze a occuparti di reati "comuni", invece chiedesti al Consiglio Superiore della Magistratura di essere trasferito a Palermo per prendere l'incarico che era stato ricoperto dai magistrati Terranova e Chinnici, barbaramente uccisi da Cosa Nostra nell'arco di soli quattro anni di distanza l'uno dall'altro.
Del resto, non avrebbe potuto essere solamente questo il tuo unico motivo di preoccupazione.
In quegli anni la mafia non aveva ucciso solo i due giudici, ma numerosi altri fedeli servitori delle Istituzioni:

- il segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana Michele Reina (9 marzo 1979);
- il capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano (21 luglio 1979);
- il presidente democristiano della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980);
- il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile (3 maggio 1980);
- il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa (6 agosto 1980);
- il deputato e segretario regionale siciliano del Partito Comunista Pio La Torre (30 aprile 1982);
- il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982);
- il sostituto procuratore di Trapani Giangiacomo Ciaccio Montalto (25 gennaio 1983).

Inoltre i boss di Cosa Nostra erano contemporaneamente impegnati a combattere una sanguinosa faida interna (ribattezzata "seconda guerra di mafia"), iniziata il 23 aprile 1981 e terminata il 30 novembre 1982, in cui si contrapponevano i Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (smaniosi di scalare i vertici dell'organizzazione criminale a suon di centinaia di omicidi, impadronendosi - loro soli - dell'intera Cosa Nostra) e la cosiddetta "ala moderata" che aveva comandato fino ad allora, rappresentata dai boss Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone.
Un ulteriore, non meno pericoloso nemico cui necessariamente andavi incontro era la quasi totale indifferenza che investiva le questioni di mafia, di cui venivano addirittura negate l'esistenza e la pericolosità.
Nonostante tutte le difficoltà, non ci pensasti un attimo: eri disposto a rinunciare al tuo comodo e tranquillo incarico presso il capoluogo toscano per schierarti al fronte, in prima fila, al solo scopo di proseguire quella giusta battaglia iniziata da pochissimi uomini che avevano già capito tutto, quando l'intera nazione intorno a loro si rifiutava di sapere e vedere. 
Nel settembre 1983 il Csm accettò la tua domanda con 28 sì e 3 astenuti: diventasti così il nuovo capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Giunto nel capoluogo siciliano il 9 novembre successivo, fosti subito chiaro con i tuoi colleghi: avresti ripreso e realizzato il metodo di lavoro introdotto per la prima volta dal tuo compianto predecessore Rocco Chinnici. Avresti cioè organizzato l'ufficio giudiziario garantendo un'efficace e razionale impostazione del da farsi, attraverso il lavoro di squadra e lo scambio di informazioni tra pochi, ma selezionati magistrati, i più esperti nel contrasto alla mafia. Sviluppasti e facesti nascere il famoso pool antimafia di Palermo, da te presieduto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli, tutti classe 1940 (tranne Falcone, classe 1939), dunque anagraficamente tuoi figli.
Insieme a loro redigesti la storica ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa l'8 novembre 1985, con cui rinviasti a giudizio ben 475 presunti mafiosi, dando il via al primo maxiprocesso a Cosa Nostra (celebrato in 1° grado dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987). Le tesi ivi sostenute ressero anche in Cassazione, la quale - rendendo definitive molte e pesantissime condanne di importanti boss mafiosi e annullando con rinvio numerose assoluzioni statuite in 2° grado - segnò un punto di svolta nella lotta alla mafia: nella secolare storia dell'organizzazione criminale siciliana, infatti, non era mai accaduto che i propri esponenti - e in così gran numero - venissero condannati all'ergastolo senza più possibilità di appello. 
Era il 30 gennaio 1992.
Contribuisti, così, a scrivere una nuova, fondamentale e indimenticabile pagina di storia del nostro Paese, sconvolgendo la consolidata abitudine dei mafiosi all'impunità o - nel peggiore dei casi - a un modesto numero di anni di reclusione. 
Un altro documento da te firmato di notevole importanza fu l'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 162 del 17 luglio 1987, in cui "creasti" il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, tanto vituperato e oggetto di mai sopiti tentativi depotenzianti da parte di personaggi politici con pesanti scheletri negli armadi. In tale testo giudiziario, tu e i tuoi uomini scriveste parole assai chiare:

"Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa convergenza di interessi col potere mafioso che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonchè, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali".

Nell'autunno di quello stesso 1987 chiedesti di essere trasferito nella tua Firenze (dove avevi lasciato moglie e figli) per trascorrervi gli ultimi anni di servizio prima della pensione. Speravi che il Csm avrebbe nominato quale tuo successore Giovanni Falcone, anche se temevi fortemente che il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe deciso diversamente. Per questo motivo - ovvero per evitare la temuta disgregazione del pool antimafia a seguito della nomina di un magistrato esterno al formidabile gruppo di lavoro ideato da Chinnici e da te realizzato - eri disposto a rimanere a Palermo ancora un paio d'anni (tempo necessario prima di raggiungere il pensionamento), nella constatazione di non avere alcuna solida certezza che il tuo successore sarebbe stato Falcone. Anzi, avendo sentore delle difficoltà che quest'ultimo avrebbe incontrato a causa delle sue numerose inimicizie, avevi già preparato un telegramma (che tenevi sempre a portata di mano sulla tua scrivania) da inviare al Csm in cui chiedevi di revocare il trasferimento in Toscana. Fu proprio Falcone a convincerti a stracciare quel pezzo di carta, rassicurandoti sul fatto che il Csm avrebbe scelto lui. Del resto, chi altri più di Giovanni Falcone aveva maturato "sul campo" (prima con Chinnici, poi con te) un'esperienza simile in materia di lotta alla mafia (riconosciuta persino in ambito internazionale), dimostrando una competenza, una professionalità e una conoscenza delle carte processuali senza eguali?
Purtroppo i tuoi timori si rivelarono fondati.
Infatti la notte del 19 gennaio 1988 (ovvero un solo mese dopo le condanne e gli ergastoli inflitti in 1° grado di giudizio a numerosi boss mafiosi nel maxiprocesso istruito da te e dal tuo pool) il Csm scelse Antonino Meli (14 voti favorevoli contro i 10 per Falcone, con 5 decisivi astenuti) basandosi unicamente sul criterio dell'anzianità. 
Il 14 marzo 1988, dopo 4 anni e 4 mesi di intenso lavoro e di duri sacrifici personali, lasciasti l'Ufficio Istruzione di Palermo di fronte a un Falcone in lacrime, con il rimpianto - l'unico della tua vita - di non aver spedito quel telegramma di revoca.
Il tuo successore, Antonino Meli, impiegò solo pochi mesi per smantellare il pool antimafia e disperdere in mille rivoli le indagini contro la criminalità mafiosa, suddividendole fra le diverse procure siciliane in base alla competenza territoriale. Le ineguagliabili professionalità e competenze dei migliori magistrati antimafia furono così sciaguratamente disperse. 
Il 5 novembre 1990 fosti collocato in pensione con il grado di Presidente onorario aggiunto della Cassazione.
Poi le stragi, prima Capaci (23 maggio 1992), poi via D'Amelio (19 luglio 1992), che ti "costrinsero" a scendere a Palermo due volte in due mesi per salutare i tuoi figli, amici e fratelli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.


Antonino Caponnetto abbraccia Agnese Borsellino
ai funerali del marito Paolo (24 luglio 1992)


Quelle tue poche parole, "è finito tutto"pronunciate all'uscita dell'obitorio dopo aver recato visita ai resti di Paolo Borsellino, furono la conseguenza di un comprensibile momento di sconforto, per il quale avresti poi sentito la necessità di chiedere perdono. Lo facesti con le parole, ma soprattutto con una decennale opera di testimonianza, sempre appassionata e commovente. Dal 1992 al 2002, infatti, nonostante l'età avanzata, attraversasti l'Italia per mantenere viva la memoria di Giovanni e Paolo e per trasmettere il tuo intenso e contagioso impegno civile, in particolare agli studenti e ai giovani.
Quei giovani che tanto amavi e su cui riponevi tanta fiducia per l'avvenire.
Quei giovani che, con affetto e simpatia, ti corrispondevano, chiamandoti spontaneamente "nonno Nino".
Quei giovani che, come me, non hanno avuto la fortuna di conoscerti personalmente, ma che custodiranno sempre nella mente e nel cuore il ricordo della tua vita, delle tue parole e dei tuoi preziosi insegnamenti.

"Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici, ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali.
Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli.
State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!
L’avvenire è nelle vostre mani.
Ricordatelo sempre!"


Intervista realizzata nel maggio 1996 da Gianni Minà 
ad Antonino Caponnetto per la serie televisiva "Storie” (Rai Due).
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"Stiamo attenti a non abbassare la guardia. 
Non possiamo, nè dobbiamo dimenticare che la mafia continua a rappresentare un pericolo mortale non solo per l'economia nazionale, ma anche per la stabilità democratica.
Concluderò ridicendo a voi e a me stesso le parole con cui Paolo ricordò l'amico della sua vita Giovanni:
Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro.
Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta.
Sono morti tutti per noi, per gli "ingiusti".
Abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera e accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito.
Voglio sperare che anche le Istituzioni non abbassino la guardia.
E ora vi lascio. Anche se conservo in me la speranza di poterci rivedere. So che, per un'ineludibile legge naturale, il mio percorso è ormai prossimo a concludersi. E posso dire, con tutta serenità, che è stato un percorso bellissimo. Pieno di esperienze esaltanti, di profondi affetti e di ricordi incancellabili.
Sono grato a tutti quanti hanno voluto stringersi intorno a me e testimoniarmi, ancora una volta, il loro affetto.
Grazie, un lungo abbraccio.
Per sempre, vostro
Nonno Nino"


Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto
durante la festa di saluto a Borsellino, prima del suo trasferimento
a Marsala (ottobre 1986)

lunedì 12 novembre 2012

IL DIRITTO DI (NON) LAVORARE

Non esiste solo il diritto di lavorare (sancito - con buona pace del ministro Elsa Fornero e non solo - dalla Costituzione italiana), bensì anche il diritto di non lavorare.  
Infatti la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha ricordato che: 

- se in un reparto di un'azienda sussistono condizioni di insalubrità e pericolosità (ad esempio, permangono scadenti condizioni di pulizia, si sviluppano gas e vapori tossici o si diffondono polveri nocive senza un'idoneo impianto di aspirazione, ...) tali da mettere, anche solo teoricamente, in pericolo la salute dei lavoratori, il rifiuto da parte di costoro di continuare a lavorarvi è "giustificato"
Inoltre, sempre in presenza di un quadro di insicurezza e pericolosità per la salute, è "irrilevante" la circostanza per cui nessun lavoratore abbia contratto malattie riferibili agli agenti patogeni presenti nei locali aziendali (sentenza 18 maggio 2006, n. 11664);

- alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'imprenditore è civilmente responsabile qualora non predisponga tutte le misure e le cautele necessarie per preservare l'integrità psico-fisica e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro. 
In tali casi, i lavoratori non solo hanno il diritto di ottenere un risarcimento dei danni subìti, ma anche il diritto di astenersi da quelle prestazioni la cui esecuzione possa pregiudicare la loro salute.
Conoscendo la pericolosità dei posti di lavoro, possono persino timbrare il cartellino, senza poi lavorare nelle zone a rischio: infatti un simile comportamento rappresenterebbe una "giustificata reazione" al precedente inadempimento del datore di lavoro, in base al principio (sancito dall'art. 1460 del codice civile) secondo cui ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere i suoi obblighi, se l'altro non adempie contemporaneamente i propri (sentenza 5 novembre 2012, n. 18921).

Affiorano nella mente, preziose come sempre, le parole pronunciate dal giudice Antonino Caponnetto ai ragazzi dell'Istituto Tecnico Commerciale “Michele Gortani” di Tolmezzo (Udine) il 15 maggio 1995:

"Sentite questo eptalogo, questi sette comandamenti di Michele [Del Gaudio, giudice istruttore di Savona che nel 1982 aveva ordinato l'arresto per corruzione di tutti gli uomini socialisti più potenti della Liguria, ottenendone poi la condanna, N.d.A.], cercate di racchiuderli nell'animo, di non dimenticarli. Fate uno sforzo di memoria e nei momenti di sconforto, di sfiducia, cercate di riandare a questi comandamenti di Michele:
"Rifiutate i compromessi. Siate intransigenti sui valori. Convincete con amore chi sbaglia. Rifiutate il metodo del saperci fare, questo vezzo italiano della furbizia, io ce la so fare, a me non me la fanno. Non chiedete mai favori o raccomandazioni".
Questo è un ammonimento importante. La Costituzione e le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere. Esigete i vostri diritti sempre con fermezza, con dignità. Non chiedete mai come elemosina quello che le leggi vi accordano come diritti. Chiedeteli, esigeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Dovete esigerli! Questo è un imperativo, che deve sorreggere tutta la vostra vita. E' un imperativo di dignità, di dignità umana. Abbiate sempre rispetto della vostra dignità e difendetela anche in questo modo, esigendo i vostri diritti e non chiedendoli come favori o come raccomandazioni, al politico, al potente, al funzionario di turno".

domenica 4 novembre 2012

UN NUOVO CASO ALDROVANDI

Riccardo Rasman  dopo l'incontro con la Polizia
Trieste, venerdì 27 ottobre 2006. 
E' sera.
Riccardo Rasman (34 anni, in cura presso un centro di salute mentale, in quanto affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”) viene visto da alcuni condòmini sul balcone di casa, nudo, intento a masturbarsi e a lanciare grossi petardi, uno dei quali esplode vicino alla figlia del portiere del condominio (che sta camminando per strada in compagnia del proprio cane), provocandole una sospetta lesione del timpano.
Gli inquilini dello stabile contattano le forze dell'ordine.
Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi - componenti gli equipaggi delle Volanti 3 e 4 della Questura di Trieste - intervengono.
Rasman li minaccia di morte, nel caso in cui entrino nell'appartamento.
Gli agenti si informano in maniera sufficiente del suo stato di salute mentale e attendono più di 20 minuti nel tentativo di convincere l'uomo ad aprire spontaneamente la porta.
Anche se Rasman interrompe il lancio di petardi, al suo reiterato rifiuto di aprire la porta e senza attendere le informazioni richieste alla centrale operativa, i poliziotti sono costretti ad abbattere la porta d'ingresso e a fare irruzione nell'appartamento insieme a una pattuglia di Vigili del Fuoco.
A questo punto Rasman li aggredisce (mettendo così in atto le pesanti minacce rivolte poco prima), scagliandosi contro di loro con una violenza inaudita e ingiustificata, cagionando agli stessi alcune lesioni. Ne nasce una colluttazione al cui termine gli agenti spingono a terra l'uomo, lo immobilizzano, lo ammanettano e lo costringono a rimanere in posizione prona sul pavimento.
A questo punto gli agenti salgono alternativamente sulla sua schiena, esercitando con le ginocchia una notevole pressione.
Rasman si dimena, scalcia, si lamenta, respira con affanno, sempre più lentamente, finchè le sue capacità respiratorie si riducono in maniera significativa. 
Dopo circa 5 minuti e mezzo in simili condizioni, muore per "asfissia da posizione" e conseguente arresto cardiaco.

In tutti i gradi di giudizio - Gip di Trieste (sentenza del 29 gennaio 2009), Corte d'appello di Trieste (sentenza del 30 giugno 2010) e Cassazione (sezione IV penale, sentenza 6 settembre 2012 n. 34137) -  i tre poliziotti sono stati giudicati colpevoli di eccesso colposo nell’adempimento del dovere e nella legittima difesa e di cooperazione in omicidio colposo (esclusa la legittima difesa, sono gli stessi, identici reati addebitati ai quattro poliziotti assassini di Federico Aldrovandi).
Nonostante i tre poliziotti siano stati giudicati colposamente responsabili della morte di Riccardo, i giudici hanno scisso in due parti l'intervento degli agenti: il primo legittimo e doveroso, il secondo illegittimo e penalmente rilevante.

1) Fino all'ammanettamento di Rasman l'intera condotta dei poliziotti è stata del tutto corretta e legittima, poichè caratterizzata dall'adempimento del proprio dovere e dalla legittima difesa. Gli agenti hanno agito in stretto adempimento dei propri doveri sanciti dal Codice di Procedura Penale, al solo scopo di porre fine a una situazione pericolosa per l'incolumità di terzi e dello stesso Rasman, posta l'evidente pericolosità derivante dalla detenzione di esplosivi da parte di una persona affetta da patologie psichiatriche. 
I giudici, il responsabile del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Trieste e il direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste sono concordi nel ritenere che, spettando soltanto ai poliziotti decidere come agire e non sussistendo protocolli o disposizioni operative applicabili nel caso specifico, sarebbe stato del tutto irrilevante e inutile attendere lumi dal servizio di salute mentale o l'arrivo di un infermiere. 
Pertanto, aver fatto irruzione nell'appartamento di Rasman, averlo bloccato a terra in posizione prona e averlo ammanettato sono azioni per le quali non può essere addebitato ai poliziotti alcun rimprovero penale. 

2) Dopo l'ammanettamento, i poliziotti hanno indebitamente protratto - senza alcuna necessità - la contenzione sul pavimento di Riccardoin maniera tale da impedire la funzionalità dell'apparato respiratorio per molto tempo, nonostante l'uomo fosse stato immobilizzato a terra, prono, con gli arti superiori e in inferiori legati, sanguinante dalla bocca e dal naso. Condizioni in cui non poteva di certo nuocere.
In ciò va riscontrato, da parte dei tre poliziotti, il superamento dei limiti dettati dall'adempimento dei propri doveri e dalla legittima difesa.
Dopo l'immobilizzazione e l'ammanettamento, gli agenti hanno proseguito a premere a terra Rasman, in posizione prona, per più di 5 minuti e mezzo. Per cercare di sedarlo - avendo dato vita a una robusta e duratura colluttazione - gli agenti lo hanno mantenuto compresso a terra in posizione prona, memori del fatto che - dopo aver allentato la presa al termine della lotta sul letto, convinti di averne vinto l'opposizione - l'uomo aveva ripreso a lottare, profittando del loro rilassamento.
Così operando, tuttavia, gli imputati hanno frainteso il dimenarsi di Rasman (accompagnato dal colare del sangue dalla testa alla bocca, da una respirazione affannosa e da rantoli e lamenti uditi persino dai vicini di casa) con il persistere di intenti ancora bellicosi dell'uomo, senza minimamente intuire il pericolo - assolutamente prevedibile - di asfissia, quale concreto rischio per l'incolumità di Rasman, evitabile rimettendolo in posizione supina o comunque allentando la compressione sul torace e sull'addome. 
Anche considerando il presunto rischio di ricevere eventuali pugni o calci una volta "allentata la presa" (ipotesi più astratta che reale), esso non avrebbe dovuto dissuadere i poliziotti dal far assumere all'ammanettato una posizione consona a permettergli di riprendere le normali funzioni respiratorie, in base al prioritario rilievo della salvaguardia dell'incolumità di colui che si trovi sottoposto al loro potere. Tutto ciò in nome del principio fondamentale secondo cui l'impiego della coercizione e della forza fisica da parte delle forze dell'ordine è legittimo e giustificato solo entro i tempi e i modi strettamente necessari per immobilizzare e ammanettare una persona, la quale - resa innocua - deve solo essere protetta.  
Quindi, i poliziotti hanno commesso un errore imperdonabile, poichè frutto di imperizia, colposa negligenza e macroscopica leggerezza per non essersi accertati - una volta definitivamente immobilizzato a terra Rasman,  così posto in condizione di non nuocere - del pericolo per la sua incolumità derivante dall'impedimento alla funzionalità respiratoria che la perdurante compressione sul tronco e sull'addome aveva cagionato tanto da provocarne la cianosi del volto (pur riscontrata dal capo-pattuglia della Volante 1 chiamata a rinforzo quando ormai era troppo tardi per impedire l'esito fatale).
Non è infatti necessaria una scuola di polizia per intravedere la sussistenza di notevoli rischi per l'incolumità di un soggetto che venga costretto a terra in posizione prona, sotto la pressione esercitata sul dorso con le ginocchia o con il peso di altri individui. Gli esiti di simili atti (in generale e soprattutto nel caso specifico, date le sopra descritte condizioni) sono così facilmente prevedibili da potersi senza dubbio considerare dati rientranti nel patrimonio di conoscenza comune. Chiunque, infatti, sarebbe stato in grado di intuire l'elevata probabilità di provocare la morte di una persona alla quale - già in fortissimo debito di ossigeno dopo un ingente sforzo fisico sopportato nell'ingaggio di una lotta violenta - venga impedita la naturale funzionalità respiratoria, circostanza palesemente riscontrabile - nel caso di specie - dall'affannosa respirazione di Rasman da una parte e dai suoi continui lamenti dall'altra.
La sua morte va dunque posta in relazione causale con l'ammanettamento di un uomo in forte debito di energia (per aver aggredito gli agenti), sul cui dorso i poliziotti hanno continuato a esercitare pressione per circa 5 minuti e mezzo.
Insomma, dopo il legittimo ammanettamento, gli agenti hanno innescato un processo asfittico che ha cagionato la morte di Rasman, morte assolutamente evitabile se gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contenzione a terra, consentendo all'uomo di respirare normalmente. 
Ovvero se avessero agito secondo il comune buon senso e le regole della comune esperienza umana.

P.S. I tre poliziotti responsabili della morte di Rasman (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi)  sono stati condannati in ogni grado di giudizio a una pena di soli 6 mesi di reclusione ciascuno (sospesa dalla condizionale) e al risarcimento dei danni.  
Se dopo il caso di Federico Aldrovandi (identico nello svolgimento dei fatti criminosi commessi da alcuni membri della Polizia di Stato) qualcuno pensava ancora che l'Italia fosse un Paese civile e uno Stato di diritto, ora dovrà necessariamente ricredersi.


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giovedì 1 novembre 2012

CORROTTI IN DIVISA


La storia che qui racconto vede come protagonisti alcuni poliziotti corrotti (agenti e graduati), appartenenti alle autopattuglie di Polizia Stradale in servizio a Caserta Nord.
Le indagini penali sono partite a seguito di una denuncia presentata da un autotrasportatore di mezzi pesanti, a cui è seguita la disposizione di intercettazioni ambientali da parte della magistratura all'interno di due autovetture di servizio della Polizia Stradale (tali intercettazioni – dai contenuti giudicati inequivocabili - hanno rappresentato la principale fonte di prova. Alla faccia di chi vuole depotenziare un simile strumento investigativo spesso decisivo).
I fatti - svoltisi tutti nella prima metà del 2001 - sono stati commessi da sei poliziotti con abuso dei propri poteri e delle proprie funzioni, in palese violazione dei doveri da esercitare durante i servizi di controllo dei tratti di strada di competenza (in particolare, zone autostradali). 
Gli episodi criminosi accertati sono stati diversi. Eccoli:

1) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) 
Due poliziotti hanno accettato da un camionista la promessa della futura consegna di due polli rivolta loro perchè non venissero contestate le seguenti contravvenzioni: guida senza cintura di sicurezza e possesso di patente illeggibile;

2) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) 
Un autotrasportatore ha guidato ininterrottamente per un eccessivo numero di ore con alcune luci dell'autoarticolato non visibili in ora notturna. Il camionista - senza accampare alcuna giustificazione, in quanto pienamente consapevole delle infrazioni commesse - ha consegnato una somma di denaro a due poliziotti per riprendere la marcia indenne da qualsiasi contravvenzione;

3) corruzione per atti d'ufficio già compiuti (art. 318 c. 2 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto indebitamente dai conducenti di due automezzi (con trasporti eccezionali) la somma di 20.000 lire quale ricompensa per aver effettuato un servizio di scorta stradale ai due veicoli;

4)  corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto una somma di denaro dal gestore della ditta "Fiera del Mobile" di Riardo per non formalizzare l'ingiunzione a rimuovere i pali di sostegno di un cartellone pubblicitario installati a distanza irregolare dall'autostrada.
Hanno così eluso doverosi atti di ufficio dietro illecito compenso;

5) corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno indotto un camionista a consegnare loro denaro per non procedere ai rituali controlli del suo camion. La mazzetta in denaro è stata consegnata;

6)  corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.)
Due poliziotti hanno ricevuto dal conducente di un autocarro la somma di 30.000 lire al fine di non redigere verbale di contravvenzione per omessa detenzione della patente di guida.

Si tratta di fatti delinquenziali assai gravi, inseriti all'interno di un'estesa e risalente illegalità compiuta da membri degli equipaggi della Polizia Stradale, talmente nota agli autotrasportatori e ai camionisti soliti percorrere quei tratti autostradali da indurli ad accettare la diffusa prassi di consegnare piccole somme di denaro agli agenti della Stradale - pur in assenza di loro richieste esplicite - per non avere noie o per non essere multati a seguito di infrazioni al codice della strada. 
Insomma, esisteva un vero e proprio "sistema" criminale dove il mercimonio delle funzioni pubbliche e la prassi di remunerazioni tangentizie erano assolutamente abituali e costanti.
Basti considerare che i poliziotti erano soliti non scendere nemmeno dalle proprie vetture e non redigere alcun verbale, ma temporeggiare in attesa della consegna della tangente.

Nonostante in tutti i gradi di giudizio (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Corte d'Appello di Napoli e Cassazione) la colpevolezza degli imputati non sia mai stata messa in dubbio, alla fine la VI Sezione Penale della Cassazione ha dovuto dichiarare i reati commessi dai poliziotti estinti per intervenuta prescrizione (Sentenza 14 settembre 2012, n.35269). 
Ciò grazie a una delle sterminate norme ad personam varate dal governo Berlusconi: la sciagurata legge 5 dicembre 2005 n. 251, denominata ex Cirielli. Se infatti i termini di prescrizione del reato elencato al punto 3) sono rimasti invariati (7 anni e 6 mesi), quelli del reato contestato negli altri punti si sono dimezzati (da 15 anni a 7 anni e 6 mesi). Ciò significa che senza la legge berlusconiana ci sarebbero stati ulteriori 7 anni e mezzo di tempo, i reati si sarebbero prescritti il 27 luglio 2017 (e non il 27 gennaio 2010, come invece accaduto), dunque i poliziotti sarebbero stati condannati.

mercoledì 31 ottobre 2012

IL PAESE DELLE VIOLENZE IMPUNITE

Poiché rappresenta un dato di fatto notorio che l’Italia sia il Paese dell'impunità, mi vorrei soffermare su uno degli infiniti ambiti ove tale indiscutibile constatazione si manifesta platealmente.
Mi riferisco alle violenze maschili nei confronti delle donne.
A titolo esemplificativo presento cinque vicende approdate nelle aule di giustizia.
Esse mostrano la tanto notevole, quanto preoccupante divergenza esistente tra i fatti compiuti accertati (gravi) e le sanzioni inflitte a norma di legge (ridicole).


CASO N. 1
Fatti accertati
Il marito si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia ai danni della moglie (pena massima: 5 anni di reclusione, ma se la vittima riporta lesioni gravi si arriva fino a 8 anni; se gravissime fino a 15 anni; se muore fino a 20 anni), avendone offeso il decoro e la dignità e avendola posta in uno stato di sofferenza morale e psichica tale da averle reso la vita impossibile. Le ingiurie e le offese sono state continue e gravi: ostentava rapporti extra coniugali, confrontando le doti di un'altra donna con quelle della moglie, denigrando quest’ultima sul piano fisico, morale e intellettuale. Per di più, l'uomo ostentava anche i regali fatti all’altra donna e i momenti felici trascorsi con la medesima. Si è trattato di un vero e proprio meccanismo di maltrattamento psicologico ai danni della consorte. Sussiste una precisa determinazione dell'uomo di sottoporre la moglie a vessazioni morali estremamente gravi, per mezzo di una condotta reiteratamente prevaricatrice, caratterizzata da una continua serie di insulti e infedeltà ostentate, tali da determinare evidenti sofferenze morali.

Pena
In 1° grado l'imputato è stato assolto. 
Poichè ha presentato ricorso la sola parte civile (la moglie) e non la Procura, la Corte d'Appello si è dovuta limitare a sancire la sola responsabilità civile dell'imputato, condannato quindi a un semplice risarcimento dei danni morali e biologici.
La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 18 aprile 2012, n. 15057) ha confermato.


CASO N. 2
Fatti accertati
Per ben 16 mesi (dal marzo 2004 al luglio 2005) un uomo si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia ai danni della moglie. 
Il marito - assuntore di sostanze stupefacenti - ha assunto una prolungata serie di prevaricazioni, nonchè una persistente aggressività verso la consorte da quando costei gli aveva comunicato l’intenzione di separarsi, tornando a vivere con i propri familiari e tenendo con sé il loro bambino.
Gli innumerevoli episodi vessatori si sono svolti attraverso:
- continue minacce e intimidazioni per telefono e sul luogo di lavoro della donna;
- percosse;
gesti simulati di autolesionismo (apparenti tentativi di suicidio volti a colpevolizzare la donna per la cessazione della convivenza);
gravi danneggiamenti della casa coniugale e della nuova abitazione della moglie (incendio).
Tale condotta vessatoria e intimidatoria non solo è stata sistematica e ripetitiva, ma ha leso la libertà fisica della consorte e la sua libertà morale, sottoposta a un regime di perdurante ansia, preoccupazione e allarme a causa dei ripetuti atteggiamenti violenti, prevaricatori e simulatamente autolesivi del marito.
Se ciò non bastasse, infine, l'uomo ha mostrato disinteresse persino per il turbamento causato nel figlio minorenne. 

Pena
Condannato in tutti i gradi di giudizio a 2 anni e 10 mesi di reclusione e a risarcire i danni alla vittima (Cassazione - Sez. VI Penale - Sentenza 20 giugno 2012, n. 24575). 
L'imputato non va in carcere poichè la pena è interamente coperta dall' indulto varato nel luglio 2006 durante il governo Prodi.


CASO N. 3
Fatti accertati
Un uomo si è reso responsabile di due reati ai danni della convivente: lesioni personali e maltrattamenti in famiglia.
I fatti accertati comprendono un dolo teso alla punizione fisica e alla violenza spropositata, attraverso una serie di comportamenti continui e vessatori eretti a regime di vita per la donna, nel quadro di una convivenza familiare improntata alla sopraffazione fisica e psicologica, segnata da una serie di episodi particolarmente cruenti, alcuni dei quali gravi e allarmanti, quali un tentato omicidio e l'episodio di aggressione oggetto del processo di cui qui si parla. Insomma, trattasi di fatti molto gravi, connotati da una violenza aggressiva perdurante. Movente: la gelosia.

Pena
Originariamente, all'uomo era stato contestato il reato (ben più grave) di tentato omicidio, riqualificato in lesioni personali aggravate dai futili motivi perchè non voleva uccidere.
Inoltre all'imputato è stato concesso il rito abbreviato (che prevede uno sconto di pena pari a 1/3).
In 1° e 2° grado è stato condannato a 2 anni e 6 mesi per lesioni personali aggravate dai futili motivi e maltrattamenti in famiglia (3 anni e 9 mesi meno 1/3).
La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 13 luglio 2012, n. 28111) ha cancellato l'aggravante dei futili motivi, ordinando alla Corte d'Appello di rideterminare la pena, diminuendola (in ogni modo l'imputato non andrà mai in carcere). 
Secondo la Suprema Corte, infatti, tale aggravante non sussiste poichè - pur essendo sempre necessario valutare gli elementi specifici e concreti di ogni singolo caso - la gelosia è (in linea di principio) elemento sufficiente a provocare un'azione criminosa, rappresentando una causa determinante degli eventi e non un mero pretesto per dare sfogo a un impulso criminale. 
Motivo per cui agire per gelosia non può integrare l’aggravante dei futili motivi.

CASO N. 4
Fatti accertati
Un uomo si è reso responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia in danno della moglie e dei due figli, attraverso continue, gravi e frequenti vessazioni costituite da insulti, violenze fisiche e umiliazioni, precariamente cessati solo quando l'uomo è stato allontanato dalla casa coniugale. Appena rientrato, infatti, la situazione non è per nulla mutata, finchè non è stato arrestato.
La sua condotta oppressiva è stata denotata dalla volontà di sottoporre moglie e figli a una serie di sofferenze fisiche e morali prolungate e reiterate nel tempo.

Pena
In tutti i gradi di giudizio l'imputato è stato condannato a 3 anni di reclusione (Cassazione - Sezione VI Penale - Sentenza 23 agosto 2012, n. 33142). Pena troppo lieve perchè vada in galera.


CASO N. 5
Fatti accertati
Un guidatore di autobus si è rifiutato di aprire la porta del mezzo di trasporto e, allungandosi, ha impedito il passaggio a una donna afferrandola per la coscia al fine di trattenerla mentre stava per scendere dall'automezzo. Tale atteggiamento è stato inoltre accompagnato da alcuni gesti osceni, volgari e allusivi, quali movimenti con la lingua, toccamento dei propri pantaloni, frasi come “mi diventa grosso e duro” con relativo invito a dare “una trombata”.

Pena
Originariamente l'uomo era stato chiamato a rispondere del reato di tentata violenza sessuale (pena massima: 6 anni e 8 mesi di reclusione), ma in 2° grado la Corte d'appello ha riqualificato i fatti nel reato (molto più lieve) di molestie (pena massima: 6 mesi di arresto o ammenda di 516 euro), dichiarato prescritto. 
Infatti i giudici hanno motivato tale loro decisione sostenendo che l'imputato non aveva leso la sfera sessuale della donna, ma aveva "solo" attentato alla sua tranquillità. Il guidatore si sarebbe limitato a provare a saggiare le reazioni della donna recandole disturbo, senza che da ciò si potesse inequivocabilmente dedurre l'idoneità a far subire un congiungimento carnale. Tutto ciò in base alla dinamica dei fatti (svoltisi all’interno di un autobus di linea condotto dall'imputato) e alla mancanza di atti indirizzati verso una zona erogena (toccare la coscia della passeggera sarebbe stato volto a fermare la donna piuttosto che un'espressione di bramosia sessuale).
Il Pm ha presentato ricorso in Cassazione, la quale - accogliendolo - ha annullato il verdetto d'appello con rinvio per un nuovo giudizio (Cassazione - Sezione III Penale - Sentenza 4 ottobre 2012, n. 38719).
I supremi giudici infatti hanno stabilito che i fatti addebitati all'imputato configurano l'originario reato di tentata violenza sessuale, dal momento che l’imputato non si era limitato a meri atti di corteggiamento invasivo, ma aveva pure omesso di aprire la porta dell'autobus e impedito il passaggio alla donna per fermarla. Un tale comportamento - accompagnato dai gesti e dalla parole sopra esplicitati - denota l’intento di appagare il proprio desiderio violando nel contempo la sfera di autodeterminazione sessuale della donna.
Ecco in sintesi come la Corte delinea le differenze sussistenti tra le due fattispecie di reato contestate alternativamente nel corso del processo:

molestia sessuale: espressioni volgari a sfondo sessuale o atti di corteggiamento invasivo e insistito diversi dall'abuso sessuale;

- tentata violenza sessuale: pur in mancanza del contatto fisico, la condotta denota l’intenzione di raggiungere l’appagamento degli istinti sessuali e l’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale.



P.S. La Cassazione (Sezione VI Penale - Sentenza 20 giugno 2012, n. 24575) ha spiegato la differenza tra i reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e atti persecutori (art. 612-bis c.p., comunemente chiamato stalking, introdotto nel codice penale italiano dal governo Berlusconi nel febbraio 2009).
Pur avendo in comune le modalità esecutive e il tipo di lesioni inferte, i due delitti hanno le seguenti differenze:

- il reato di maltrattamenti (reato contro la famiglia) scatta solo all'interno di rapporti basati su vincoli familiari. Pertanto può essere commesso solo da chi ricopra un ruolo all'interno della famiglia (coniuge, genitore, figlio,...) o una posizione di autorità o affidamento nelle aggregazioni assimilate alla famiglia (scuole, ospedali, carceri,...) e la vittima deve essere una persona che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate.
Inoltre non occorre che le sofferenze e le mortificazioni inflitte con abitualità si colleghino a specifici contegni prepotenti e vessatori, ma è sufficiente che sussista un diffuso clima di afflizione, sofferenza e paura indotto nella vittima; 

- il reato di atti persecutori (reato contro la persona, in particolare contro la sua libertà morale) può essere commesso da chiunque con atti specifici di minaccia o molestia reiterati, poichè non presuppone l’esistenza di relazioni specifiche tra l'agente e la vittima.

Qualora sia cessato il vincolo familiare e affettivo (divorzio o relazione definitivamente terminata) si contesta il reato di atti persecutori, mentre è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nei casi di separazione (nell'ottica per cui vengono meno gli obblighi di convivenza e fedeltà, ma permangono pur sempre i doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi separati).

E' inoltre possibile contestare a un imputato entrambi i reati.

Per quanto concerne il trattamento sanzionatorio, il reato di maltrattamenti in famiglia è più grave. Se infatti la pena massima per quest'ultimo delitto corrisponde a 5 anni di reclusione (ma - come si è già detto - se la vittima riporta lesioni gravi si arriva fino a 8 anni; se gravissime fino a 15 anni; se muore fino a 20 anni), per il reato di atti persecutori (o stalking) la condanna massima è pari a 4 anni di reclusione (che diventano 5 anni e 4 mesi se il fatto sia commesso dal coniuge divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla vittima).

domenica 7 ottobre 2012

DONNE (E MADRI) AL LAVORO


Il Tribunale di Catania (sentenza emessa il 16 dicembre 2009), la Corte d'appello di Catania (sentenza del 28 febbraio 2011) e la Cassazione (sentenza 21 settembre 2012, n. 36332) hanno riconosciuto l'incaricato di una società responsabile del reato di tentata violenza privata ai danni di una lavoratrice appena divenuta mamma.
Che cosa era successo?
I titolari di una società volevano far cessare l’attività per proseguire sotto una nuova veste societaria, ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti, da licenziare e assumere nuovamente.
Nell'ottobre 2003 una dipendente - in astensione obbligatoria per maternità, pertanto non licenziabile (è ancora nel periodo di puerperio, ovvero nelle prime 6/8 settimane dopo il parto) - viene convocata dalla società in un locale degradato e abbandonato. Lì i titolari cercano di imporre alla donna le loro condizioni: o si sarebbe dimessa o le sarebbe stato assegnato - contro la sua volontà - il periodo di astensione facoltativa per maternità (retribuito solo al 30% dello stipendio). Infine le viene preannunciato che, nel caso in cui si fosse ostinata a rifiutare entrambe le condizioni (è l'unica dipendente a non volersi dimettere) e a chiedere semplicemente la ripresa della propria normale attività al termine dell'astensione obbligatoria, al rientro da questa sarebbe stata costretta a lavorare in condizioni invivibili, in quel medesimo locale fatiscente, senza alcun compito o mansione. 
Nonostante la vicenda si sia alla fine conclusa positivamente (la società ha trattenuto la lavoratrice in servizio a stipendio pieno, lasciandola a casa fino allo scadere del termine di protezione dal licenziamento), resta il fatto che il titolare avesse prospettato alla lavoratrice una situazione personale e lavorativa pessima e ingiusta, al solo scopo di costringerla ad accettare le condizioni imposte dalla società. 
Ciò, secondo i magistrati, configura il reato di tentata violenza privata (pena massima: 2 anni e 8 mesi di reclusione), dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.